martedì 30 dicembre 2008
Testi da studiare per l'esame di Sociolinguistica, specialistica
Testi da studiare per l'esame di Sociolinguistica, triennale
mercoledì 3 dicembre 2008
"Mondi in connessione": due seminari l'11 dicembre
Graziella Parati insegna Letterature Comparate e Studi di Genere presso il Dartmouth College - U.S.A. ed è una studiosa di letteratura e cultura italiana del diciannovesimo e ventesimo secolo, delle scritture autobiografiche, di questioni di genere e pioniera degli studi sulla letteratura della migrazione in Italia. Tra le sue pubblicazioni figurano "Migration Italy: The Art of Talking Back in a Destination Culture" (2005) e "Italian Feminist Theory and Practice: Equality and Sexual Difference" (co-edited with Rebecca West).
Gabriella Kuruvilla, laureata in architettura, è scrittrice, artista e giornalista. Con lo pseudonimo di Viola Chandra nel 2001 ha pubblicato il romanzo "Media chiara e noccioline" (DeriveApprodi). Nel 2005 ha partecipato alla raccolta "Pecore Nere" (Laterza) con i racconti "Ruben" e "India", mentre "Documenti", premiato al concorso letterario Nazionale Lingua Madre, è apparso in Lingua Madre Duemilasette (Edizioni SEB 27). Nel 2008 è uscito il libro di racconti "E' la vita, dolcezza" Baldini e Castoldi Dalai.
giovedì 13 novembre 2008
"Seam and star: Male elegance", un convegno ad Antwerp (Belgio)
mercoledì 12 novembre 2008
mercoledì 5 novembre 2008
lunedì 27 ottobre 2008
lunedì 20 ottobre 2008
Lezioni di Analisi socio-antropologica del prodotto di moda
Lezioni di Sociolinguistica - triennale
giovedì 16 ottobre 2008
lunedì 13 ottobre 2008
50 anni di collant (ma anche qualche secolo in più)
Articolo pubblicato su "La Gazzetta del Mezzogiorno" del 12/10/2008
Stiamo per celebrare nel 2009 i 50 anni dall’invenzione dei collant: al compleanno di uno degli oggetti più controversi della storia della moda verranno presto dedicate mostre storiche, posti d’onore nelle boutique specializzate, servizi fotografici nelle riviste, vetrine reali e virtuali con variazioni sul tema. Fu nel 1959 che Allen Gant Sr. della Glen Raven Mills, una fabbrica di tessuti della North Carolina, ideò questo tipo di indumento. I collant conobbero poi il loro exploit all’inizio degli anni ’60 in concomitanza con il “ruggire” delle mode esplose a partire dalla Swinging London. La loro ideale e immediata collocazione furono le gambe delle prime temerarie che indossarono le minigonne proprio a Londra, la città che lanciava allora le mode di strada più ardite. Pronte a passare dalle strade alle passerelle, e da Londra al globo intero, le minigonne avrebbero però lasciato scoperte alle brume uggiose degli inverni le intraprendenti gambe delle neofite di questo oggetto del desiderio, se non ci fossero stati i collant a ricoprirle. Era peraltro impensabile indossare sotto la minigonna le pur sensuali ma obsolete calze tradizionali, rette da guepière o reggicalze poco in sintonia con la libertà che le gambe delle donne avevano tutta l’intenzione di conquistarsi per le strade del mondo.
Fin qui il racconto della nascita di quelle che sono oggi tra i più diffusi tipi di calze femminili. C’è però un’altra storia da raccontare, ed è quella di un indumento parente prossimo dei collant, noto però più prosaicamente come “calzamaglia”. Conosciamo con questo nome un oggetto la cui funzione è soprattutto quella di coprire le gambe dal freddo e le cui origini vanno ben al di là dell’invenzione di Allen Gant e dalla moda esclusivamente femminile. Molto simili a una calzamaglia erano ad esempio le braghe, un tipo di calzoni aderenti usati dagli uomini nel Quattrocento e nel Cinquecento. Il celebre ritratto di Enrico VIII (1491-1547) dipinto da Hans Holbein il giovane ci mostra il pluriconiugato sovrano d’Inghilterra con i muscoli torniti delle gambe fasciati sotto una calzamaglia bianca. E nel Rinascimento italiano gli uomini indossavano i cosciali, una specie di pantaloni aderenti che ricoprivano la parte alta delle gambe (da cui il loro nome), e che in una certa fase divennero talmente attillati – proprio come i moderni collant femminili - da venire vietati con leggi apposite. Fu forse anche in seguito a queste leggi che i cosciali si allargarono al punto da divenire braghesse, antesignani dei pantaloni.
La storia del costume e della moda è una storia complessa dove quelli che oggi consideriamo segni tipici e caratterizzanti separatamente l’abito maschile o quello femminile hanno in realtà origini e motivi comuni intrecciati tra loro. Sarà forse anche per questo che esiste nel nostro tempo una nicchia maschile che usa i collant per ragioni sanitarie, sportive o per comodità, oltre che per la voglia che alcuni uomini hanno di travestirsi da donna. Il termine francese collants, per la verità, indica i pantaloni maschili lunghi e stretti dotati un sottopiede per tenerli tesi, che si usarono nei primi decenni dell’Ottocento. Un’eredità moderna di questo capo furono i pantaloni da sci, sia da uomo che da donna, in uso sulle piste innevate di Cortina e Sankt Moritz negli anni ’60 del Novecento, che vennero variamente interpretati nell’alta moda del tempo da Emilio Pucci.
Insomma, una parola ne apre tante altre, in un incastro di scatole cinesi tanto variegato quanti sono i sensi della moda e quanti sono i termini per indicare lo stesso indumento o alcuni capi apparentati tra loro. In inglese, per esempio, esistono due termini per indicare i nostri collant: pantyhose e tights, il primo termine in uso negli Stati Uniti; il secondo diffuso nel Regno Unito. A voler essere filologicamente corretti, le pantyhose sono le calze più leggere e trasparenti, mentre le tights sono quelle più doppie e coprenti. Ma nella lingua franca della moda si annoverano infinità di oggetti che avvolgono le gambe femminili: dalle knee highs, le “parigine” lunghe poco sopra il ginocchio; alle tabi socks, le antichissime calze giapponesi con l’alluce separato; fino alle conturbanti thigh highs, che in italiano chiamiamo “autoreggenti”.
A proposito di queste ultime, molti uomini non si stancheranno mai di ricordare alle donne quanto esse siano infinitamente più erotiche e finanche più eleganti dei “goffi” collant. Eppure, si potrebbe ricordare a costoro che furono proprio dei collant ante litteram a coprire con probi sforzi censori le gambe delle gemelle Kessler e delle ballerine castigatissime dei primi anni della TV italiana. Ma con quanta maggior pudicizia queste gambe venivano allora adombrate, con tanta maggiore irruenza si scatenavano passioni e pulsioni nel prototelespettatore maschio italico. Ciò che si copre con un pezzo di stoffa può dunque spesso scoprirsi negli occhi dell’immaginazione. Lo dimostra in modo speciale una campagna pubblicitaria che un decennio fa circa una nota azienda austriaca di calze e underwear affidò all’arte fotografica di Helmut Newton. Nell’obiettivo del celebre maestro, perfino dei collant riuscirono a esprimere un raffinato gioco visivo erotico e feticistico.
In questi decenni si sono moltiplicate le formule in cui case di moda specializzate e stilisti glamour hanno reinventato i collant: alle tradizionali trasparenze si sono così aggiunti i più vari motivi come fantasie leopardate, decorazioni brillanti, ricami, pizzi preziosi. Al pari che in altri ambiti del vestire, anche nel settore delle calze la moda ama utilizzare meccanismi di composizione e scomposizione dei suoi oggetti: un modello di collant di questa stagione, ad esempio, si divide in due parti, una che arriva fin sotto il ginocchio e l’altra costituita da un “calzettone” senza piede, collegate tra loro da un laccetto annodato. O, ancora, vengono trasposte da altri ambiti della sartoria tecniche compositive insolite, come il drappeggio nel caso di un paio di collant che terminano alla caviglia con morbide pieghe.
Prevalente resta infine sempre la tecnica della citazione, come in alcune versioni di collant che oggi replicano i fuseaux anni ’80 con la staffa sotto il piede, ma che utilizzano tessuti più morbidi che all’epoca. O come nel caso di un genere al momento molto di moda: i leggings, i collant privi del piede, da indossare in combinazioni diverse che fanno subito stile. Sopra un paio di ballerine si potrà così citare il personaggio interpretato da Audrey Hepburn in Funny Face; con dei sandali a stiletto e unghie laccatissime l’effetto sarà feticistico; sotto una gonna drappeggiata in vita, l’insieme trarrà ispirazione da un costume da odalisca.
venerdì 10 ottobre 2008
Facoltà di Lingue e Letterature straniere, Corsi di laurea specialistica, Programma dell’insegnamento di Sociolinguistica, a. a. 2008-2009
Contenuti del corso: Basi semiotiche e ambiti socioculturali della sociolinguistica oggi; stereotipi, miti e senso comune; cinema e linguaggio; ritmi urbani; genere, corpo e media; frontiere e sconfinamenti; plurilinguismo e traduzioni culturali.
Organizzazione del corso: Lezioni frontali e seminari durante i quali gli studenti dovranno intervenire impegnandosi eventualmente anche nella preparazione di brevi elaborati e nella traduzione in italiano di saggi di studio.
TESTI DI STUDIO:
· P. Calefato, Sociosemiotica 2.0, Bari, B.A. Graphis, 2008.
· F. De Ruggieri, I segni del cinema, Bari, Progedit, 2008.
· C. Attimonelli, Techno: Ritmi afrofuturisti, Roma, Meltemi, 2008.
· Testi su dispensa e online in distribuzione durante il corso.
Il corso si svolge durante il I semestre
lunedì 6 ottobre 2008
Un articolo di 7 mesi fa
Pubblicato l'8/3/2008 su La Gazzetta del Mezzogiorno
Posto questo articolo adesso proponendolo come contributo al "Vogliamo anche le rose" di cui parlerà agli studenti e al pubblico baresi Alina Marazzi il prossimo 15 ottobre. L'articolo mi sembra quanto mai attuale, pur nella sua "inattualità" da calendario: un po' come farsi gli auguri di Natale in agosto, insomma. Solo che ciò di cui qui si parla non sono precisamente "auguri", non c'è nessuna ricorrenza da celebrare, al contrario.
A partire dai primi anni del 2000, sull’8 marzo era sceso in Italia un pietoso silenzio. Innanzi tutto da parte delle donne, stanche di prenotare tavoli in pizzerie sovraffollate; stanche di ricevere mimose che appassiscono in poche ore nei vasi domestici; stanche di festeggiare in chiassose comitive monogenere una ricorrenza di cui nessuno ricordava più l’origine; stanche della ennesima data sul calendario divenuta, dagli anni Ottanta in poi, occasione di consumo e cioccolatini, al pari di San Valentino, Halloween,
Se guardiamo alla storia dell’ultimo mezzo secolo in Italia, è stato soltanto in un decennio – quello dei Settanta – che questo giorno ha avuto effettivamente modo di essere, come si diceva all’epoca, “non un anniversario / ma un giorno di lotta rivoluzionario”. Di rivoluzione effettivamente si trattava, dal momento che le vere rivoluzioni sono quelle che sconvolgono la vita reale delle persone e mutano le abitudini più radicate creando nuova cultura, nuovi valori, nuovo senso comune. Intorno a quegli anni mutò radicalmente nel nostro paese l’universo intero delle relazioni tra uomini e donne. Cambiavano le donne a partire dalla loro quotidianità e dalle loro esperienze, e cambiavano insieme gli uomini, certo con grandi sforzi e resistenze.
Pensiamo che solo fino al decennio precedente, l’Italia era stato il paese dove il delitto “d’onore” riceveva pene ridotte; dove l’adulterio della donna era punito con la reclusione; dove il divorzio conosceva solamente la sua ipocrita versione “all’italiana”, come nel celebre film di Germi del 1961; dove la violenza sessuale era considerato un delitto contro la morale e non contro la persona. Dove i figli nati al di fuori del matrimonio erano figli “illegittimi” e dove la donna che volesse portare avanti una maternità da sola era sanzionata pesantemente dalla comunità. L’Italia era il paese dove le donne morivano quotidianamente e dolorosamente per l’aborto clandestino.
Furono dunque le donne in prima persona a cambiare la doppia morale dominante nella nostra cultura e a scalfire pian piano, ma con grande decisione, una concezione che prevedeva solo ruoli prefissati e destini segnati: madre o prostituta, mai soggetto libero di scegliere; figlia, sorella o moglie, mai cittadina autonoma. Così ciascun 8 marzo, del 1972, del ’73, del ’74, via via fino alla fine del decennio, fu veramente l’occasione per ritrovare nelle piazze e nei luoghi di pacifico raduno e discussione migliaia di donne che prendevano la parola su ciò che riguardava direttamente la loro vita, i loro corpi, la loro sessualità, la loro indipendenza di pensiero. La società italiana tutta cambiò: la legge sul divorzio (1970), il nuovo diritto di famiglia (1975), la 194 per “la tutela della maternità e l’interruzione volontaria della gravidanza” (1978), le leggi a tutela delle lavoratrici madri (1971) ne furono il segno tangibile e l’effetto stabile. Le nuove norme contro la violenza sessuale arrivarono solo nel 1997, oltre vent’anni dopo il tremendo “massacro del Circeo” (1975) che aveva simbolizzato nell’orrore il delitto maschilista più efferato. Ma sono arrivate anche quelle.
Nel frattempo, gli 8 marzo erano diventati però sempre più occasioni di consumo, trasformandosi spesso anche in goliardate poco edificanti che negli anni ’90 fecero la fortuna dei gruppi di strip-tease maschile. Forse la fatica di arrivare alle conquiste civili era stata tanta e le donne adesso volevano un po’ riposare e tessere una tela di libertà e diritti meno appariscente, ma in realtà molto più radicata nei luoghi dove ogni giorno si trasmettono culture e linguaggi, come nella scuola; dove esistono relazioni, come in ogni casa e in ogni luogo di lavoro; dove si esercita la cura, dove si accoglie chi arriva da lontano. Forse le nuove generazioni di donne che nascevano davano per scontate libertà e civiltà, portando nel loro DNA le conquiste di madri e nonne.
Mai però assopirsi! Mai dare nulla per scontato! Perché il tempo è “grande scultore”, come diceva Marguerite Yourcenar, ma nel tempo la memoria rischia di perdersi, e ciò che alle donne è toccato in Italia negli ultimi 20 anni è stata una lenta ma pervicace erosione della dignità pubblica e dell’autonomia. Basti qualche esempio: come è stato possibile che la minigonna, da indumento che ha significato l’emancipazione e la libertà femminile di muovere le gambe ovunque una donna vuole, sia diventato un banale simbolo di seduzione da usarsi quando si vuole “fare colpo”? Come si è riusciti nel giro di qualche anno in Italia a rendere “vincenti” figure della femminilità e della bellezza sagomate sul genere velina, accompagnatrice, amante di politico importante, fidanzata di calciatore, frequentarice del Billionaire, moglie-modella di presidente della repubblica francese?
Qualcuna ha alzato la voce contro questo nuovo presunto “destino”, ed ecco che negli ultimi tempi è subito apparso, in una nuova direzione, un accorato ma subdolo appello a quanto in ogni donna, di qualunque età e origine, vive nell’animo ben radicato: il senso di colpa. Una carriera? un aborto? un abbandono? Rea sempre confessa la donna: è sua la colpa. Brutta storia, come dimostra proprio il caso dell’aborto: tutti sono d’accordo nel dire che la 194 sia una buona legge, ma – per riprendere l’ironico refrain di Paola Cortellesi, “riparliamone!”. Potremmo riparlarne, ma solo per rammentare con le più anziane e raccontare alle più giovani la “fatica” politica, simbolica e fisica attraverso cui ci si arrivò, i dolori che quella legge lenì e continua a lenire, le discussioni e gli insegnamenti che in quel percorso incontrammo, i progressi nella salute e nella prevenzione che intorno a quella legge sono stati fatti.
Ci tocca di nuovo far qualcosa l’8 marzo. Ci tocca non lasciare agli integralismi di ogni tipo questioni che riguardano valori come la responsabilità e la libertà. Il rischio è che la responsabilità venga intesa di nuovo come necessità di venire tutelate da qualcuno, e che la libertà venga scambiata per superficiale individualismo. “Non sono forse libere le varie soubrette e celebrities fotografate dai paparazzi o esibite in televisione?”, può dire una vocina sorda dietro l’angolo. Ma non è certo quello il modello di autentica libertà che le donne hanno messo secoli a conquistare e che per molte donne nel mondo è ancora lontana.
Dunque, l’8 marzo, ancora.
mercoledì 10 settembre 2008
Interactions: Un convegno a Stoccolma
lunedì 18 agosto 2008
Un convegno a Urbino in settembre
Università degli Studi di Urbino “Carlo Bo”/Piazza Rinascimento, 7/ I - 61029 URBINO
Tel. & fax.: (0039) 0722.303533
E-Mail: semiotica@uniurb.it
www.uniurb.it/semiotica/home.htm
8 - 9 - 10 settembre 2008:
Finzioni autobiografiche/ Fictions autobiographiques / Autobiographical fictions
Coordinatori: Gianfranco Marrone (Palermo) e Piero Ricci (Siena,Urbino)
Sede e Segreteria : Collegio della Vela
Lunedì 8 Settembre - Aula della Vela
15:30 Apertura dei lavori, introducono:
Gianfranco Marrone (Palermo) e Piero Ricci (Siena,Urbino)
16:15-17:00 Omar Calabrese (Siena)
L'autoritratto non-ritratto: come l'arte contemporanea elabora e/o cancella l'immagine di sé
Pausa
17:30-18:15 Salomon Resnik (Paris-Venezia)
Biografia dell’inconscio
18:15-19:00 Maria Rosaria Dagostino (Bari)
Autobiografia e autocitazione nella graphic novel Fun Home (Alison Bechdel)
DOPO CENA
21:00 – Conversazione con Salomon Resnik
Martedì 9 Settembre - Aula della Vela
9:15–10:00 Patrizia Violi (Bologna)
Verità della parola, autenticità dell’immagine: uso della fotografia tra storia, testimonianza, autobiografia
10:00-10:45 Anne Beyaert-Geslin (Limoges)
Photoreportage et autobiographie
Pausa
11:15-12:00 Alessandro Portelli (Roma)
Immaginazione e costruzione di sé nella Narrative di Frederick Douglass
12:00-12:45 Francesco Mangiapane (Palermo)
Alex Langer: di come si diventa traditori (della compattezza etnica)
Pomeriggio
16:00-16:45 Patrizia Calefato (Bari)
Il giubbotto e il foulard: l'autobiografia a fumetti di Marjane Satrapi
16:45-17:30 Maria Pia Pozzato (Bologna)
L’incerta enunciazione dell’Opera nel racconto autobiografico dell’artista.
Pausa
18:00-18:45 Maria Giulia Dondero (Liegi, Bologna)
Le goût des Belges: autobiografia culinaria di una nazione
18:45-19:30 Monica Turci (Bologna)
Autobiografie e ‘language memoirs’
Mercoledì 10 Settembre - Aula della Vela
9:00–9:45 Giulia Ceriani (Siena)
Vite chiacchierate: weblog, identità e giovanissime età
9:45-10:30 Simonetta Franci (Venezia)
Le due Gabrielle: camouflage autobiografico in Colette e Coco Chanel
Pausa
11:00-11:45 Dario Mangano (Palermo)
Self design: autobiografie di architettura (Le Corbusier, Gehry, Piano).
11:45-12:30 Ivan Tassi (Bologna)
Un accidente veramente di romanzo
12:30-13:15 Alain J. J. Cohen (San Diego)*
Pomeriggio
16:00-16:45 Francesca Polacci (Siena)
Collages cubisti tra cancellazione dell'autografia e complessa elaborazione formale
16:45-17:30 Federico Montanari (Bologna)
Ripensare i diari di guerra. Esempi e modelli fra diaristica dalla catastrofe e patto autobiografico.
pausa
18:00-18:45 Paolo Fabbri (Venezia)
Raccontarsi nello sterminio: il testimone tra etica ed estetica
*titolo da definire
lunedì 21 luglio 2008
Corpi allo specchio
A dirigere l'edizione 2008 degli Incontri internazionali di Arles è stato chiamato il couturier Christian Lacroix. Che scegliendo immagini di autori come il camerunense Samuel Fosso, l'indiano Achinto Bhadra o la francese Françoise Huguier, ha puntato, più che su modelli o tessuti, sui diversi modi in cui gli abiti sono documenti del tempo
NUOVE PROFONDITÀ DI CAMPO TRA MODA E FOTOGRAFIA
Senza la fotografia la moda non esisterebbe. Può sembrare un'affermazione azzardata, soprattutto tenendo conto delle più recenti e accreditate ricostruzioni della Fashion Theory che considerano la moda un sistema strettamente legato al carattere originario della «modernità», dunque di gran lunga precedente l'epoca della riproducibilità tecnica, innanzi tutto fotografica, dei segni visivi. C'è però un senso più intimo e individuale che la moda lambisce, forse non previsto dalle ricostruzioni epocali, ma certamente fondativo della moda stessa quale sistema attraverso cui il corpo e l'occhio vengono «toccati» dal rivestimento.
Vanitas vanitatum
Un senso che richiama direttamente la fotografia quale arte del tempo unico, dell' «è stato» come sosteneva Roland Barthes, e insieme arte della visione tradotta in immagine. Un senso che permette alla moda di essere soprattutto «un modo d'essere, di mostrarsi, di apparire», scrive Christian Lacroix, il couturier che quest'anno è stato chiamato a dirigere i Rencontres Internationales de photographie di Arles. In questa occasione, è proprio attraverso la figura di stilista-artista di Lacroix che moda e fotografia, sistemi del vedere e del sentire, mostrano i loro vincoli più insoliti.
Chiamati a esporre sono infatti non «fotografi di moda» in senso stretto, ma fotografi a tutto campo, secondo la grande lezione lasciata da Richard Avedon, che fu artista della modernità in senso pieno e che è presente alla manifestazione di Arles attraverso la sua «favola» In memory of the late Mr and Mrs Comfort, pubblicata dal «New Yorker» nel 1995. Nella favola fotografica di Avedon, la modella Nadja Auermann, Mrs. Comfort, compare in coppia con uno scheletro, un Mr. Comfort vestito come lei con gli abiti dei più grandi stilisti della haute couture, tra i quali lo stesso Lacroix. In questa serie Avedon celebra insieme l'apoteosi dell'alta moda e lo scarnificato senso di morte che la moda porta con sé. Metafore dello specchio barocco in cui il teschio richiama la vanitas vanitatum; riedizione del sex appeal dell'inorganico di benjaminiana memoria; fine presunta della relazione tra Avedon stesso e il mondo della moda: qualunque significato prevalga nella loro interpretazione, queste splendide immagini possono esemplarmente testimoniare il ruolo di sfondo filosofico che la fotografia riveste nei confronti della moda.
Uno sguardo al backstage
È alla fotografia come procedura intima della memoria che Lacroix fa riferimento nel suo progetto di curatore arrivando a scrivere, in una sorta di breve autobiografia, che per lungo tempo l'immagine fotografica è stato il suo unico legame col mondo, e che lui e la fotografia sono stati insieme bambini in bianco e nero, poi adolescenti pop, infine adulti a colori. La fotografia incontra così la moda nel punto in cui entrambe vanno oltre la posa, il tessuto e il make-up, dove la moda smette di essere «fashionista» e parla di identità, di presenza, di assenza, in definitiva ancora di tempo. L'idea di empatia tra fotografia e moda che emerge dai Rencontres firmati Lacroix si rivolge allora «ai backstage piuttosto che alla ribalta, all'anonimato piuttosto che allo sfarzo, alla nudità autentica piuttosto che ai fronzoli, all'umile e anodino piuttosto che alla gloria convenzionale e ai riconoscimenti affettati, all'impressione piuttosto che all'ovvietà».
Ne sono testimonianza gli scatti del francese Grégoire Korganow, tratti dalle serie A côté, dedicata alle famiglie dei detenuti, e Backstage, realizzata per «Marie Claire» e dedicata ai luoghi che si trovano al di là delle passerelle d'alta moda. Nella prima serie, un'immagine in particolare colpisce: Le linge de Claire, ritratto di una donna che si avvolge fino al naso in una T-shirt che appartiene al suo uomo in carcere. L'immagine parla direttamente a chi la guarda di sensi che, oltre il vedere, comprendono l'odorare e il toccare; aggiunge inoltre al novero dei sensi umani anche il ricordo, in grado di potenziare i sensi e di venirne a sua volta nutrito. In quella T-shirt resta della moda l'accenno alla doppia vita di questa: una di superficie e una intima; una vita sociale e una vita unica, sconosciuta, d'angolo, che la fotografia sola riesce a captare.
Il corpo rivestito può mostrare attraverso l'immagine fotografica identità prese a prestito, come quelle del fotografo camerunense, ora residente nella Repubblica Centrafricana, Samuel Fosso. Uomo di poche parole, quale egli stesso si autopresenta, può dirsi personaggio e regista di se stesso e interpretare parti che lo trasformano nell'Uomo d'affari in completo grigio, cravatta a quadri e telefonino all'orecchio, oppure in uno dei personaggi del Sogno di mio nonno. In quest'ultima serie, Fosso compare con la pelle dipinta di rosso, il cranio rasato e solo un cache-sexe indosso come in una cerimonia di iniziazione in cui la fotografia autorizza anche l'ironia sull'immagine stereotipata dell'Africa «tradizionale».
Grembiuli e uniformi
Il fotografo di Calcutta Achinto Bhadra presenta alcune immagini tratte da un lavoro patrocinato dalla Fondazione Terre des Hommes, che egli da alcuni anni conduce con giovani donne indiane sopravvissute al traffico dei corpi, agli stupri e all'abbandono. Posando con abiti e oggetti indosso, queste donne rivivono il loro passato di violenze e abusi, mascherando la loro identità dietro stereotipi vestimentari o massmediatici. Nella foto Protetta dal burqa una donna musulmana si nasconde perché ha paura di quanto potrebbe succederle se si venisse a sapere ciò che ha subito. Vittima due volte, della violenza passata e della paura per il futuro, la fotografia e l'abito riescono però a mettere all'opera in lei una forma di riscatto, di sopravvivenza, di forza. In Un albero rifugio, invece, un'adolescente rivive il suo passato bisogno di luoghi dove rifugiarsi e si nasconde dietro una grande foglia, luogo naturale dove trovare riparo. La fotografa francese Françoise Huguier propone immagini tratte dalla serie Kommunalka, che testimonia di una vita in comune da lei trascorsa dal 2002 al 2007 a San Pietroburgo. «Chi mi ha parlato di fantasmi? Chi mi ha detto che di notte a San Pietroburgo puoi vedere l'invisibile?», si chiede l'autrice. La vita in questa casa, e specialmente quella di una delle abitanti, Natacha, restituiscono, attraverso gli scatti realizzati in cinque anni da Huguier, la narrazione della città intera. Un'operazione con cui nessuna rivista di moda o di interior design potrebbe competere. Al prototipo vestimentario dell'uniforme attingono invece la fotografa inglese Vanessa Winship e il francese Charles Fréger. La prima sceglie l'uniforme delle scolare che vivono ai confini dell'Anatolia orientale: quello che da noi è il «grembiule» è lì il simbolo «laico» dello Stato, una divisa blu sempre uguale in tutta la Turchia, anche sulle frontiere che lambiscono Iraq, Siria e Armenia, i luoghi dove l'artista esegue i suoi ritratti. Winship dice di essere attratta da sempre dai temi della frontiera non solo geografica, ma più radicalmente «umana», e le sue coppie di amiche col «grembiule» alludono a una frontiera temporale, che da lei chiamato «il momento appena prima», quello dove risiede la possibilità e dove la presentazione del sé oscilla verso la coscienza.
Le uniformi di Fréger sono invece decisamente militaresche e imperiali. Proprio Impero si chiama la sua serie che comprende, tra le altre, le guardie a cavallo inglesi e le scorte reali belghe, le cui divise attingono direttamente all'etichetta e alla simbologia degli imperi e dei cerimoniali del XVIII e XIX secolo.
Fu quello il momento in cui nacque la moda maschile borghese direttamente forgiata sul modello dell'uniforme militare e sui segni esteriori degli eserciti europei che colonizzavano il mondo. Mentre questo accadeva, dalle stanze segrete delle «disobbedienti» - le cocottes, le demimondaines della seconda metà dell'Ottocento - si diramavano ritratti di donne poco raccomandabili racchiusi in una calling card che serviva come mezzo segnaletico per la polizia e come biglietto da visita per potenziali clienti. Sono Les Insoumises, di cui la mostra riscopre gli scatti rubati come documenti preziosi sia della storia della moda che di quella della fotografia. Fu proprio dalla foto segnaletica e dalle caratteristiche antropometriche degli schedati che si originò la funzione di riconoscimento dell'identità che la fotografia permette ancora oggi. C'è dunque una storia del ritratto fotografico, che è insieme storia corpo e storia della cittadinanza, i cui prototipi si situano nei margini sociali, nei luoghi riprovevoli della devianza e della insubordinazione alle leggi. Tanto più interessanti queste storie, se i soggetti di queste rappresentazioni posano in abiti alla moda o in pose narcisistiche simili a quelle in cui si faceva ritrarre nello stesso periodo dai fotografi Pierson e Mayer mondana di corte Contessa di Castiglione. Nella sezione Documents, infine, sono previste mostre dedicate al fotografare abiti, concentrate su aspetti insoliti, come le nature morte di Vogue, il rapporto tra fotografia moda e video, nonché la presenza della fotografia all'interno dello spazio web 2.0 con blog di moda e altre forme di passaggio dell'immagine fashion dalla strada al web. Masoprattutto, quello che sembra emergereda uno sguardo complessivo è la maturazione del rapporto tra moda e fotografia, nel senso di una profondità di campo completamente nuova ormai assunto dall'una come dall'altra, ciascuna nella propria rispettiva funzione culturale e simbolica.
sabato 19 luglio 2008
Corso Interfacoltà in Scienze e Tecnologie della Moda - Analisi socioantropologica dell'oggetto di Moda - 2008_2009
¨ FINALITA’ DEL CORSO
Gli studenti dovranno acquisire concetti della Fashion Theory relativi al funzionamento della moda come forma di linguaggio e comunicazione, dovranno acquisire conoscenze relative alla analisi sociosemiotica degli oggetti di moda, delle tendenze e degli stili nell’ambito delle attuali forme di rappresentazione sociale del corpo.
¨ CONTENUTI DEL CORSO
La Fashion Theory; Dalla Fashion Theory alla Fashion Practice; L’abbigliamento come sistema di segni; Il corpo rivestito; Il linguaggio del vestire; Il costume cinematografico; Locale/globale nella moda; Fotografia di moda; La moda e la città; Glamour e nuovo lusso.
¨ BIBLIOGRAFIA:
¨ Antonella Giannone, Patrizia Calefato, Manuale di comunicazione, sociologia e cultura della moda. Vol. 5: Performances, Roma, Meltemi, 2007.
¨ Alison Lurie, Il linguaggio dei vestiti, ed. it. a cura di Claudia Attimonelli Petraglione, Roma, Armando, 2007.
Facoltà di Lingue e Letterature straniere, Corsi di laurea di I livello, Programma dell’insegnamento di Linguistica informatica - A. a. 2008-2009
Titolo del corso: Testualità digitali e pratiche sociali
Contenuti del corso: I testi elettronici, dall’ipertesto fino alle nuove frontiere del “Web
Testi di studio
· Laura Borras Castanyer, a cura, Testualità elettroniche, Bari, B.A. Graphis, 2006.
· Francesca De Ruggieri e Annarita Celeste Pugliese, a cura, Futura. Genere e tecnologie, Roma, Meltemi, 2006.
· P. Calefato, Media digitali, comunicazione, comunità, testi online forniti durante il corso.
· Enrico Menduni, I media digitali. Tecnologie, linguaggi, usi sociali, Roma-Bari, Laterza, 2007.
Le lezioni si svolgono durante il II semestre
Facoltà di Lingue e Letterature straniere, Corsi di laurea di I livello Programma dell’insegnamento di Sociolinguistica , A. a. 2008-2009
Titolo del corso: I linguaggi, le immagini, i suoni, i corpi.
Contenuti del corso: Basi semiotiche e ambiti socioculturali della sociolinguistica oggi; stereotipi, miti e senso comune; cinema e linguaggio; ritmi urbani; genere, corpo e media; frontiere e sconfinamenti; plurilinguismo e traduzioni culturali.
TESTI DI STUDIO:
· P. Calefato, Sociosemiotica 2.0, Bari, B.A. Graphis, 2008.
· F. De Ruggieri, I segni del cinema, Bari, Progedit, 2008.
· C. Attimonelli, Techno: Ritmi afrofuturisti, Roma, Meltemi, 2008.
· Testi su dispensa e online in distribuzione durante il corso.
Il corso si svolge durante il I semestre