(Da "La Gazzetta del Mezzogiorno del 29/6/2014)
Chi l’ha detto che d’estate i corpi tendono solo a scoprirsi?
Certo, fa caldo, ci si alleggerisce, si ripongono negli armadi invernali calze,
maglioni, guanti e giacche; le braccia, le gambe e i décolleté si liberano di
maniche, pantaloni lunghi e colli a prova di mal di gola. E’ alla testa però
che succede qualcosa di strano e curiosamente inverso rispetto alla generale
tendenza. La testa d’estate infatti non smette di ricoprirsi: con i cappelli,
saggi riparatori dai raggi solari, ma soprattutto con gli occhiali da sole, a
proposito dei quali, più che di testa in generale, parliamo di volto in
particolare. Tratto distintivo, e all’estero spesso stereotipato,
dell’“italianità”, certamente gli occhiali da sole si indossano sia d’estate
che d’inverno, soprattutto in quei luoghi del Bel Paese dove anche a gennaio
può esserci una luce naturale intensa, Sud o alta montagna che sia. E’ però
specialmente nella bella stagione che gli occhiali da sole svolgono a pieno la
loro funzione primaria di proteggere i nostri occhi dai raggi ultravioletti,
minaccia seria per la vista.
Non è da molto tempo nella
storia dell’umanità che la protezione degli occhi dal sole viene affidata alle
lenti. L’uso di cristalli e pietre preziose smerigliate per ingrandire le
immagini è testimoniata nell’antichità latina, mentre le prime lenti da vista
compaiono intorno al Tredicesimo secolo. Ma l’oscuramento delle lenti allo
scopo di temperare la luce naturale ha una storia molto più recente, che risale
appena alla fine dell’Ottocento, con i primi tentativi, e poi decisamente al
Novecento. Precedentemente, solo i popoli dei ghiacci, come gli Inuit, avevano
usato pezzi di legno o di osso sugli occhi che lasciavano la possibilità di
vedere attraverso un piccolo buco al centro, allo scopo di sopportare la luce
micidiale riflessa delle loro latitudini. Presso altre società si ricorreva invece
ai tessuti avvolti intorno al viso, ai veli, ai cappelli a falde larghe e con
visiera, agli stessi capelli, quando tutto mancava per proteggersi.
Le “protesi” scure fatte di vetro e tenute ferme dietro le
orecchie in forma di occhiali si diffusero in modo crescente a partire dall’uso
che intorno agli anni ’30 del Novecento ne fecero per primi gli aviatori e i
piloti automobilistici. La moda è stata spesso
debitrice sia della guerra che dello sport: moltissimi usi, segni ed oggetti di
moda, come nel caso degli occhiali da sole, si sono ispirati alle divise
militari, da un lato, e alle tenute sportive, dall’altro. Tanto da far pensare
che una delle funzioni delle guerre sia stata quella di compensare la
distruzione di vite e territori attraverso la conservazione simbolica o fisica
di indumenti e accessori legati alle uniformi. L’ispirazione sportiva si spiega
invece nel fatto che, proprio a partire dal primo Novecento, lo sport diviene
una forma di intrattenimento, spesso spettacolare, destinato alle masse, esattamente
come la moda, che nella modernità non è più una prerogativa aristocratica e
cortigiana, ma una forma di socialità quotidiana.
Nel 1937 Edwin Land fondò la Polaroid, che cominciò a
produrre in serie occhiali da sole con il filtro polarizzante inventato proprio
da Land. Protezione degli occhi e glamour divennero a questo punto un binomio
inscindibile, dal momento che la moda, il cinema e la pubblicità iniziarono a
diffondere nell’immaginario sociale l’idea di mistero, fascino, forse anche
malìa, trasmessa da uno sguardo che si nasconda sotto oscure lenti. I divi di
Hollywood li usarono come maschera per giocare al nascondimento/riconoscimento.
Le pagine delle riviste di moda dell’epoca classica di “Vogue” e “Harpers’
Bazaar” – tra i ’50 e i ’60 – si riempirono nei mesi estivi di modelle
occhialute. Fu merito degli occhiali da sole di Audrey Hepburn in Colazione da Tiffany (1961), gli
intramontabili Wayfarer, la valorizzazione positiva della donna con gli
occhiali, per lo meno con gli occhiali da sole. Proprio il cinema hollywoodiano
aveva invece spesso enfatizzato negativamente i personaggi femminili dotati di
lenti da vista: maestro di questa operazione fu Alfred Hitchcock, che per
esempio in Vertigo (La donna che visse due volte, 1958)
contrappose simbolicamente la bellissima ma colpevole Kim Novack, di cui si
innamora il protagonista James Stewart, al personaggio della disegnatrice di
moda interpretato da Barbara Bel Geddes, che però porta ahimé gli occhiali e
che pertanto può essere per lui nulla più che una “fraterna” amica. Certo,
Marilyn Monroe aveva “giocato” con il fascino degli occhiali da vista nel film Come sposare un milionario (1953), dove interpretava
la parte di una modella terribilmente miope, ma lei era un’eccezione, appunto.
Mentre gli occhiali da vista segnalano comunque simbolicamente
una condizione di handicap del corpo, sia pure lieve e comune alla maggior
parte degli esseri umani, gli occhiali da sole sembrano invece esprimere una
condizione di potere del corpo: non si sa cosa lo sguardo possa nascondere,
potenzialmente tutto o niente, in ogni caso qualcosa che si sottrae
all’interpretazione univoca da parte dell’altro. Intendiamoci: ragioniamo su
segni i cui significati si legano a sfumature, e che possono spesso
capovolgersi nel loro contrario. Che senso dare, per esempio, all’immagine del musicista jazz Miles Davis
in quella copertina storica del disco ‘Round
Midnight del 1957, in cui gli occhiali da sole contribuiscono in modo
determinante a rendere la sua espressione distaccata e calma, con un po’ di
malinconia, e a farne l’emblema cool
del suo genere musicale? Da quella versione cool sono derivati, nel cinema, gli
occhiali celeberrimi dei Blues Brothers (1980), quelli delle Jene di Quentin Tarantino (1992), quelli
dei Men in Black (1997 e 2002). Coronamento cinematografico, il techno-cool di Neo,
protagonista della saga di Matrix (1999-2003).
Gli occhiali
da sole sono un capo di moda verso cui genere maschile e genere
femminile sembrano ugualmente molto interessati, insomma. Prova ne siano, per
gli uomini, altri pezzi storici, che dal cinema hanno segnato la moda, come i
Persol di
Marcello Mastroianni in Divorzio
all’italiana (1962), di Steve McQueen nel film icona di stile Il caso Thomas Crown (1968), di Daniel
Craig che in Skyfall (2012) prosegue la
lunga tradizione degli 007 occhialuti.
Qualche giorno fa il maggiore gruppo mondiale degli
occhiali, Luxottica, ha commissionato al più celebre blogger fotografico di
moda, Scott Schuman autore del Sartorialist
(www.sartorialist.com), il progetto Faces
by the Sartorialist (facce da Sartorialist) destinato a ricercare per le
strade delle città del mondo in cui già il blogger lavora, da New York a
Firenze a Stoccolma, tutte le facce con gli occhiali che possano rappresentare
un’originale eleganza di strada. Ce ne saranno certamente di ogni tipo: ma tra
gli occhialoni chiari da nerd e le lenti scure più cool sarà una bella
competizione.
La stessa Luxottica ha da poco anche siglato un accordo con
Google per realizzare il design e l’innovazione di una nuova generazione dei Google
Glass, gli occhiali che rendono accessibile e indossabile la “realtà aumentata”.
Una realtà che ha certamente delle componenti oscure sulla sua superficie, o su
quella degli occhiali che ce la sveleranno.
Box
Non è da molto tempo nella storia dell’umanità che la
protezione degli occhi dal sole viene affidata alle lenti. L’uso di cristalli e
pietre smerigliate per ingrandire le immagini è testimoniata nell’antichità
latina, mentre le prime lenti da vista compaiono intorno al Tredicesimo secolo.
Ma l’oscuramento delle lenti allo scopo di temperare la luce naturale ha una
storia molto più recente che risale agli anni ’20 del Novecento. Solo i popoli
dei ghiacci, come gli Inuit, per sopportare la luce micidiale riflessa delle
loro latitudini, usavano sin dall’antichità coprirsi gli occhi con pezzi di
legno o di osso che lasciavano la possibilità di vedere attraverso un piccolo
buco al centro. Presso altre società si ricorreva invece per proteggersi ai
tessuti avvolti intorno al viso, ai veli, ai cappelli a falde larghe e con
visiera, agli stessi capelli, quando tutto mancava.