Questo articolo è stato pubblicato su "La Gazzetta del mezzogiorno" del 1/3/2009
Sbagliano a mio parere coloro che negli ultimi giorni hanno accusato il sindaco Cacciari di volere “vendere” Venezia alla Coca Cola. La notizia è nota: dei distributori automatici della celebre bibita saranno collocati in diverse zone della città, divisi tra gli imbarcaderi del servizio pubblico di linea, l'ingresso dei servizi igienici pubblici dei Giardinetti ex Reali, le motonavi di linea e altri luoghi chiusi. In cambio, il Comune riceverà dalla multinazionale oltre due milioni di euro in cinque anni che contribuiranno alla salvaguardia del patrimonio artistico veneziano. Al contrario di quanto ha affermato giorni fa il quotidiano La Stampa, che cioè la Coca Cola “si berrà” Venezia deturpandola, e a dispetto delle rivendicazioni “autarchiche” dei leghisti veneti, preoccupati che la concessione venga data all’azienda di Atlanta e non a prodotti locali, la scelta del Comune sembra invece andare proprio in controtendenza rispetto alla concezione della città quale territorio di caccia per la cartellonistica e la diffusione con ogni mezzo di messaggi pubblicitari e brand. I distributori veneziani, infatti, avranno una particolarità: saranno tutti “anonimi”, privi del logo e dei colori caratteristici del marchio. L’impressione netta è che si tratti di una strategia comunicativa diversa dal solito, in cui la città non si fa più fagocitare dai brand e dalla cartellonistica pubblicitaria, ma è lei a prendere in mano le condizioni della comunicazione urbana, compresa quella pubblicitaria dei privati. La logica, in questo caso, non è quella del “mecenatismo” dell’azienda privata che sponsorizza un evento culturale o il restauro di un bene artistico, bensì quella di una città che fa essa stessa marketing territoriale.
Nello stesso senso sembra andare una delibera che andrà presto in discussione al Consiglio comunale di Firenze, che prevede la possibilità da parte del Comune di “affittare”, per limitati periodi di tempo e a costi ben definiti, alcuni luoghi cittadini ad aziende private che vogliano farne la sede di manifestazioni pubblicitarie. Cosa che già comunemente avviene in Italia, quando ad esempio vengono esposti nuovi modelli di auto in piazze celebri delle città d’arte, o quando dei monumenti storici fanno da sfondo alle fotografie pubblicitarie. Ebbene, invece di continuare supinamente ad accettare che i luoghi più belli delle città siano trasformati in icone pubblicitarie, la tendenza è oggi che sia la città a fare di se stessa, per così dire, un brand. Ciò vale particolarmente per le città d’arte, ma vale per tutti i paesaggi urbani del ventunesimo secolo che oggi devono necessariamente tutelare il proprio capitale culturale e potenziare la propria qualità della vita, pena la loro decadenza irreversibile.
Le città moderne sono state sempre territori “rivestiti” dei segni distintivi delle merci. “Le strade sono le abitazioni del collettivo”, scriveva Walter Benjamin negli anni ’30 del Novecento. Il grande filosofo tedesco si riferiva alle strade delle grandi città moderne europee - Parigi in primo luogo - che già sin dalla seconda metà del secolo precedente erano divenute il luogo fondamentale in cui i nuovi cittadini della società di massa, i flaneurs, manifestavano i loro stili di vita, coltivavano gusti ed estetiche, sperimentavano propri modi di fruire del tempo libero. Sin dalle Esposizioni Universali di fine Ottocento e primo Novecento, città come Parigi, Milano, Londra e Torino celebrarono, in onore di queste strade e di questo loro abitante collettivo “inquieto e mobile”, come lo definì sempre lo stesso Benjamin, forme sempre più elaborate di presentazione dei prodotti industriali divenuti beni di consumo. Fu in quella fase storica che nelle strade cittadine si aprirono le vetrine dei negozi, a partire dalle “Arcades”, i Grandi magazzini concepiti come un misto di interno ed esterno, nei quali era possibile passeggiare, oziare, conversare, oltre che, naturalmente, comprare. Di questi luoghi storici sono poi divenuti diretti eredi, a partire dalla seconda metà del Novecento, i grandi centri commerciali dove anonime masse trascorrono intere giornate dedicate al consumo, necessario o superfluo che sia, e che oggi sorgono al di fuori delle città, mentre le Arcades erano per eccellenza un’istituzione urbana.
A differenza delle masse che popolano questi luoghi, le merci non sono però mai state anonime, hanno anzi sempre avuto dei nomi precisi che le caratterizzano e le identificano. Hanno nomi i luoghi che le contengono – come la storica Galeries Lafayette, sorta a Parigi nel 1895, o l’italiana La Rinascente, che deve il suo nome a Gabriele D’Annunzio (1917) e le sue prime reclame (1920-29) a Marcello Dudovich. Hanno nomi, colori, volti e corpi i logo e le immagini pubblicitarie che rivestono, proprio come un abito, il paesaggio urbano. Lo testimoniano immagini ben definite ormai nella memoria collettiva e nella cultura visuale. Times Square a New York, ad esempio, è impensabile senza i suoi cartelloni pubblicitari che oggi si animano grazie alle tecnologie digitali, ma che furono elettrificati sin dal 1904, anno in cui l’area venne così denominata dal nome del celebre quotidiano New York Times che lì trovò la sua sede agli inizi del Novecento.
Il cinema, quale deposito e motore dell’immaginario, ha ben impresso nelle nostre menti l’idea che le città siano le abitazioni del collettivo sotto forma di merce: oltre un quarto di secolo fa Blade Runner (1982) sacralizzò l’immagine della metropoli che porta impressi su di sé marchi e messaggi pubblicitari a grandezza e intensità pervasive e minacciose, per quanto seducenti. Nei primi 2000, Minority Report (2002) immaginò un futuro prossimo inquietante in cui le merci blandiscono con voci suadenti e visioni olografiche e personalizzate i loro compratori potenziali.
Siamo però oggi probabilmente e auspicabilmente a una svolta, e la crisi economica, tra tanti inconvenienti che porta con sé, ci offre anche un’occasione per realizzarla. Non si tratta banalmente di azzerare il panorama, a volte anche esteticamente pregevole, dei “rivestimenti” pubblicitari di cui le città si ricoprono, dagli edifici, agli autobus, ai muri. Solo a saperle ben vedere, ci sono oggi tutte le condizioni perché siano le città – cioè i cittadini – a dire consapevolmente la loro riguardo alla comunicazione che si realizza sul loro territorio. Noi tutti possiamo insomma trasformarci da consumatori passivi in titolari di una sorta di “brand etico cittadino” che faccia appello a valori qualitativi, culturali, sostenibili. E sarà allora la Coca Cola, o qualunque altro marchio, a doversi adeguare, non viceversa.