il mio articolo pubblicato su "La Gazzetta del mezzogiorno" del 31/1/2010
Sfugge il concetto di complessità ai legislatori europei ogni qual volta propongano una regolamentazione del costume femminile “non occidentale”, come è stato anni fa in Francia e in alcuni Länder tedeschi, e come è oggi nel caso della proposta di legge francese che intende vietare l’uso nei luoghi pubblici, dagli autobus agli ospedali, del burqa e del niqab, cioè di quei “veli” che coprono interamente il volto femminile. Sfugge perché ogni legge di questo tipo tende ad accomunare, soprattutto sul piano propagandistico, non solo diversi tipi di “velo” islamico, ma anche diverse modalità di usare i segni dell’abbigliamento da parte delle donne.
La proposta di legge francese si basa su un assunto ragionevole: nei luoghi pubblici tutte le persone devono essere riconoscibili, perché condividono insieme una dimensione di comunità nella quale ciascuno è chiamato, per così dire, a metterci la faccia. Analogamente, quindi, dovrebbero a rigore essere vietati i passamontagna, gli occhiali da sole “a mascherina” rilanciati negli ultimi anni proprio da una celebre casa di moda francese, le sciarpe, i cappucci, i caschi integrali, il trucco pesante, le maschere di Carnevale, le mascherine sanitarie, e potremmo continuare ancora a lungo in questo elenco. Quante volte ci capita di incontrare per strada un amico che non riconosciamo perché il suo volto è coperto da qualcuno di questi segni? Consideriamo invece indumenti e accessori di questo tipo o necessari per proteggersi dal freddo, dai contagi e dai rischi di incidente, oppure “alla moda”: ed è proprio così, nessuno sognerebbe mai di vietarli, se non – come è giusto – in situazioni quali ad esempio una manifestazione di piazza, una partita di calcio o un esame.
Se il burqa e il niqab si caricano di un significato speciale, però, non è semplicemente perché coprono il volto, ma perché sono considerati segni di una sottomissione femminile imputata alla cultura islamica tout-court. L’Europa, o le sue singole presunte “identità nazionali” pretenderebbero allora di potere “salvare” le donne islamiche, nel più nobile dei casi attraverso leggi come quella francese che comunque si ispirano a ideali di razionalità e uguaglianza, nel caso invece più meschino e pericoloso attraverso comportamenti discriminanti che si adottano non appena si ha a che fare con un costume diverso, che viene ritenuto “inferiore”. E’ quanto capita quotidianamente, e che sta capitando in modo preoccupante sempre di più nell’Italia consapevolmente o inconsapevolmente razzista dei nostri tempi, dove i governanti insistono in modo irresponsabile sulle presunte “colpe” degli immigrati, e sulla “barbarie” che la componente islamica introdurrebbe nella “nostra” cultura, a cominciare dal velo.
Dovremmo invece metterci all’ascolto innanzi tutto delle parole e dei comportamenti delle donne, le molte e diverse tra loro donne “islamiche”, immigrate in Europa o residenti nei paesi di origine, di generazione differente, laiche o beghine (termine valido per tutte le religioni), libere o segregate, liberali o conservatrici, yemenite, turche, maghrebine o egiziane, ricche o povere. Già queste differenze allontanerebbero il senso comune dall’idea preconcetta che le donne e i veli siano tutti uguali.
In Turchia, per esempio, è stata la re-islamizzazione partita dagli anni ’70 del Novecento a introdurre l’uso del velo, il tesettür, parola che vuol dire “coprire”, “nascondere”, a dispetto delle leggi dello stato laico. In Iran, fu con il khomeinismo che vennero emanati precisi diktat, validi tuttora, sul modo di vestire delle donne. In Afghanistan la legge del burqa venne imposta dai Talibani. La giornalista italiana Giuliana Sgrena, molto esperta di paesi mediorientali e vittima in Irak di un drammatico rapimento nel 2005, nel suo libro Il prezzo del velo, ricorda come il velo, nelle sue diverse declinazioni, si è complessivamente fatto strada a partire dal processo di re-islamizzazione integralista che attraversa il mondo musulmano e che si è ulteriormente esacerbato dopo l’11 settembre 2001, nel contesto dello “scontro di civiltà” che gioca sui corpi femminili uno scambio simbolico tra uomini e una violenza patriarcale inaudita.
Studiose iraniane, egiziane, indonesiane, yemenite, pakistane e di ogni parte del mondo, oggi riflettono sul piano storico, sociologico e semiotico sui veli e sulle mode, sottraendo all’aggettivo “islamico” ogni connotazione uniformante e integralista che sia la presunzione occidentale, sia l’Islam più integralista tendono invece a sottolineare. Anche negli stati più repressivi, anche nell’Iran recentemente attraversato dalla violenza di stato che ha fatto moltissime vittime tra le donne, a cominciare dalla giovane Neda, sono tantissime le forme di resistenza femminile alla negazione del corpo attraverso l’imposizione del velo. Ci sono segni, visibili solo a saperli scorgere, come una ciocca in più di capelli che fuoriesce dal foulard, oppure nascosti, come un make-up pesante o della biancheria intima alla moda e sensuale sotto il niqab.
Inoltre, il velo non è immune alle leggi della moda: le boutique di lusso del Cairo o di Abu Dhabi sono piene di veli griffati che le donne indossano con lo stesso atteggiamento delle europee o nordamericane che acquistano un tailleur di Chanel o una pelliccia elegante. Nel cuore d’Europa – a Parigi o a Berlino – le ragazze indossano i loro foulard cambiando ogni giorno colori e fantasie, accoppiandoli allo stile dell’abito e avvolgendoseli addosso secondo l’estro e le mode di strada da loro stesse inventate. A loro volta, questi stili vengono comunicati dalle giovani immigrate di seconda generazione – che sarebbe più giusto chiamare non più immigrate, ma residenti a pieno titolo – alle loro coetanee “europee”. Si crea così un’ibridazione tra stili diversi, tra la minigonna e il foulard, tra l’hijab e i jeans.
Il corpo “rivestito” è un luogo di rappresentazione e condivisione di gusti e di mode, di edificazione del mito, di espressione di desideri e valori, di esercizio e di manifestazione visibile del potere. Tutto al medesimo tempo; tutto in forma conflittuale, tanto più se si tratta di un corpo di donna su cui i segni del potere che definiscono il genere in modo coercitivo, come il velo, si contaminano con segni percepiti invece da chi li indossa come espressione di libertà, con miti della cultura di massa, con oggetti-culto della moda.
Tra la presunta libertà occidentale dei corpi femminili e la coercizione del velo ci sono molte altre strade che le donne possono scegliere. Qual è, del resto, questa “libertà” europea? Quella di denudarsi per il voyeurismo mediatico? Di sottoporre il corpo alle trasformazioni coatte della chirurgia estetica? Di doversi contenere in quella taglia 42 che la scrittrice marocchina Fatema Mernissi chiama giustamente “harem d’Occidente”?
La proposta di legge francese si basa su un assunto ragionevole: nei luoghi pubblici tutte le persone devono essere riconoscibili, perché condividono insieme una dimensione di comunità nella quale ciascuno è chiamato, per così dire, a metterci la faccia. Analogamente, quindi, dovrebbero a rigore essere vietati i passamontagna, gli occhiali da sole “a mascherina” rilanciati negli ultimi anni proprio da una celebre casa di moda francese, le sciarpe, i cappucci, i caschi integrali, il trucco pesante, le maschere di Carnevale, le mascherine sanitarie, e potremmo continuare ancora a lungo in questo elenco. Quante volte ci capita di incontrare per strada un amico che non riconosciamo perché il suo volto è coperto da qualcuno di questi segni? Consideriamo invece indumenti e accessori di questo tipo o necessari per proteggersi dal freddo, dai contagi e dai rischi di incidente, oppure “alla moda”: ed è proprio così, nessuno sognerebbe mai di vietarli, se non – come è giusto – in situazioni quali ad esempio una manifestazione di piazza, una partita di calcio o un esame.
Se il burqa e il niqab si caricano di un significato speciale, però, non è semplicemente perché coprono il volto, ma perché sono considerati segni di una sottomissione femminile imputata alla cultura islamica tout-court. L’Europa, o le sue singole presunte “identità nazionali” pretenderebbero allora di potere “salvare” le donne islamiche, nel più nobile dei casi attraverso leggi come quella francese che comunque si ispirano a ideali di razionalità e uguaglianza, nel caso invece più meschino e pericoloso attraverso comportamenti discriminanti che si adottano non appena si ha a che fare con un costume diverso, che viene ritenuto “inferiore”. E’ quanto capita quotidianamente, e che sta capitando in modo preoccupante sempre di più nell’Italia consapevolmente o inconsapevolmente razzista dei nostri tempi, dove i governanti insistono in modo irresponsabile sulle presunte “colpe” degli immigrati, e sulla “barbarie” che la componente islamica introdurrebbe nella “nostra” cultura, a cominciare dal velo.
Dovremmo invece metterci all’ascolto innanzi tutto delle parole e dei comportamenti delle donne, le molte e diverse tra loro donne “islamiche”, immigrate in Europa o residenti nei paesi di origine, di generazione differente, laiche o beghine (termine valido per tutte le religioni), libere o segregate, liberali o conservatrici, yemenite, turche, maghrebine o egiziane, ricche o povere. Già queste differenze allontanerebbero il senso comune dall’idea preconcetta che le donne e i veli siano tutti uguali.
In Turchia, per esempio, è stata la re-islamizzazione partita dagli anni ’70 del Novecento a introdurre l’uso del velo, il tesettür, parola che vuol dire “coprire”, “nascondere”, a dispetto delle leggi dello stato laico. In Iran, fu con il khomeinismo che vennero emanati precisi diktat, validi tuttora, sul modo di vestire delle donne. In Afghanistan la legge del burqa venne imposta dai Talibani. La giornalista italiana Giuliana Sgrena, molto esperta di paesi mediorientali e vittima in Irak di un drammatico rapimento nel 2005, nel suo libro Il prezzo del velo, ricorda come il velo, nelle sue diverse declinazioni, si è complessivamente fatto strada a partire dal processo di re-islamizzazione integralista che attraversa il mondo musulmano e che si è ulteriormente esacerbato dopo l’11 settembre 2001, nel contesto dello “scontro di civiltà” che gioca sui corpi femminili uno scambio simbolico tra uomini e una violenza patriarcale inaudita.
Studiose iraniane, egiziane, indonesiane, yemenite, pakistane e di ogni parte del mondo, oggi riflettono sul piano storico, sociologico e semiotico sui veli e sulle mode, sottraendo all’aggettivo “islamico” ogni connotazione uniformante e integralista che sia la presunzione occidentale, sia l’Islam più integralista tendono invece a sottolineare. Anche negli stati più repressivi, anche nell’Iran recentemente attraversato dalla violenza di stato che ha fatto moltissime vittime tra le donne, a cominciare dalla giovane Neda, sono tantissime le forme di resistenza femminile alla negazione del corpo attraverso l’imposizione del velo. Ci sono segni, visibili solo a saperli scorgere, come una ciocca in più di capelli che fuoriesce dal foulard, oppure nascosti, come un make-up pesante o della biancheria intima alla moda e sensuale sotto il niqab.
Inoltre, il velo non è immune alle leggi della moda: le boutique di lusso del Cairo o di Abu Dhabi sono piene di veli griffati che le donne indossano con lo stesso atteggiamento delle europee o nordamericane che acquistano un tailleur di Chanel o una pelliccia elegante. Nel cuore d’Europa – a Parigi o a Berlino – le ragazze indossano i loro foulard cambiando ogni giorno colori e fantasie, accoppiandoli allo stile dell’abito e avvolgendoseli addosso secondo l’estro e le mode di strada da loro stesse inventate. A loro volta, questi stili vengono comunicati dalle giovani immigrate di seconda generazione – che sarebbe più giusto chiamare non più immigrate, ma residenti a pieno titolo – alle loro coetanee “europee”. Si crea così un’ibridazione tra stili diversi, tra la minigonna e il foulard, tra l’hijab e i jeans.
Il corpo “rivestito” è un luogo di rappresentazione e condivisione di gusti e di mode, di edificazione del mito, di espressione di desideri e valori, di esercizio e di manifestazione visibile del potere. Tutto al medesimo tempo; tutto in forma conflittuale, tanto più se si tratta di un corpo di donna su cui i segni del potere che definiscono il genere in modo coercitivo, come il velo, si contaminano con segni percepiti invece da chi li indossa come espressione di libertà, con miti della cultura di massa, con oggetti-culto della moda.
Tra la presunta libertà occidentale dei corpi femminili e la coercizione del velo ci sono molte altre strade che le donne possono scegliere. Qual è, del resto, questa “libertà” europea? Quella di denudarsi per il voyeurismo mediatico? Di sottoporre il corpo alle trasformazioni coatte della chirurgia estetica? Di doversi contenere in quella taglia 42 che la scrittrice marocchina Fatema Mernissi chiama giustamente “harem d’Occidente”?
Box
“Hijab: my right, my choice, my life” (Hijab: il mio diritto, la mia scelta, la mia vita) è la scritta che compare su alcune felpe e T-shirt di “styleislam.com”, un marchio tedesco che lancia dal web alla strada uno stile destinato ai giovani di ogni cultura. “Comunichiamo l’Islam in una lingua che i giovani possono comprendere, senza sacrificare i nostri valori in questo processo”, scrivono nella loro autopresentazione sulla homepage multilingue. Scorrono così nella pagina dello shop capi di vestiario e gadget tipici della moda casual internazionale, decorati da slogan di sapore islamico, oppure dai caratteri stilizzati della scrittura araba, o ancora dai disegni di figure femminili velate dai caratteri infantili, quasi in una versione mediorientale della linea Hello Kitty. Nessun integralismo, anzi: uno street-style improntato al pacifismo, alla solidarietà verso i paesi poveri e alla demolizione degli stereotipi sulla cultura islamica. Finanche il motto “I love my Prophet” (amo il mio profeta) scritto su una linea di T-shirt, invece che una dichiarazione di fede fine a se stessa, diviene una frase che può accomunare diverse culture, e che traduce quella dimensione “pop” dell’Islam contemporaneo che si tende a non comprendere o a mettere in secondo piano.
Patrizia Calefato