Pubblico un articolo pubblicato su La Gazzetta del Mezzogiorno dell'8 dicembre 2009. Dopo che ho visto questa vetrina a Stoccolma, in piena Sodermalm, devo dire che ci avevo visto giusto ;)
Mi sono decisa anche io: dopo una vita passata a considerarlo come un oggetto che mai e poi mai sarebbe entrato tra i miei “accessori” utili, sono entrata in un negozio specializzato in casalinghi e ho acquistato un carrello portaspesa. Capiente, robusto ma leggero, decorato da una fantasia a quadri che fa tanto casalinga anni ’60, non l’ho fatto neanche incartare, ma l’ho subito riempito di patate, pomodori, sedani e mandarini appena acquistati, mentre in un comodo vano ho fatto entrare come per magia il portatile, l’agenda da lavoro, alcune fotocopie, la pendrive e due libri.
Niente più buste di plastica inquinanti: frutta e verdura possono giacere libere o al limite avvolte in buste di carta da riciclare. E poi basta con i pesi da sollevare e con il desiderio perenne di possedere almeno quattro o cinque mani per riuscire a tenere tutto. Il carrello ha risolto i problemi. Certo, ben lo sanno da decenni generazioni di donne che affollano ogni mattina i mercati alimentari.
Come la vestaglietta di cotone a fiorellini, il carrello è uno di quegli oggetti intramontabili che caratterizzano un certo stile “italiano” e che sono fortemente intrecciati con la storia del nostro paese. Intendo qui “stile” non come moda o eleganza, ma come modo di vivere la quotidianità, come stile di vita che alimenta l’immaginario.
Negli anni del dopoguerra in cui le donne in Italia svolgevano prevalentemente il lavoro di casalinghe, facendo la spesa ogni giorno al mercato, il carrello fu un oggetto fondamentale, presente in tutte le case, soprattutto nel Sud della penisola dove il lavoro femminile fuori casa arrivò più tardi o comunque convisse a lungo con forme più tradizionali di quotidianità. Gli anni del boom economico e della emancipazione femminile trasformarono invece questa realtà; la spesa quotidiana fatta dalla casalinga venne sostituita da quella settimanale o bisettimanale nell’ipermercato spesso situato fuori dai centri urbani. Era, ed è tuttora, il modello “americano” dello shopping nella mall, nel centro commerciale plurifunzionale dove la spesa è un impegno non solo femminile, ma di tutta la famiglia, e dove cibi e detersivi vengono accumulati nel carrello di metallo e poi trasferiti nel bagagliaio dell’auto per essere portati a casa dentro buste di plastica di ogni dimensione. Una realtà, questa, ben consolidata in Italia negli ultimi decenni, che comunque non esclude affatto che si continui a fare la spesa nelle forme più “antiche” o che ci si affidi ai vari servizi a domicilio messi a disposizione da fornitori e supermercati urbani.
Il carrello è sopravvissuto, ma è rimasto nel corso del tempo come emblema di un ruolo casalingo che le donne hanno contestato duramente e combattuto nei fatti nella sua esclusività. E’ stato a lungo una sorta di distintivo di casalinghitudine, di generazioni anziane, di tempo di vita che si identifica con il tempo del solo lavoro domestico.
Qualcosa è cambiato da quando, a poco a poco, i modelli del consumo quotidiano hanno cominciato a trasformarsi in qualcosa di più complesso e consapevole. Per primi hanno cominciato a cambiare i contenitori delle merci: dai Paesi del nord Europa si sono diffuse anche da noi sacche in cotone lavabili e riutilizzabili per contenere i cibi, che sono diventate un po’ le sostitute delle “retine” che si usavano negli anni ’60 in Italia. I super e ipermercati incentivano l’uso di buste di carta riciclata e riciclabile al posto della plastica, che alcuni centri commerciali tendono oggi addirittura a bandire del tutto dal packaging. Alla idea globalizzata del consumo alimentare si sta sostituendo l’idea del “chilometro zero”, vale a dire che, almeno per quanto è possibile, si comprano i prodotti della propria terra che fanno risparmiare sul trasporto e sull’inquinamento, senza che questo però introduca modelli “autarchici” indiscriminati.
Torna allora a venire percepita come possibile e non stereotipata l’idea di un contenitore mobile della spesa che possa seguire i passi di chi compra, ovunque ella o egli vada, donna o uomo che sia, che si diriga verso la casa o verso l’ufficio. Si conia allora un’espressione inglese, che quasi nobilita come un oggetto esotico il vecchio carrello della spesa traducendolo nello shopping-trolley. Si inventano modelli firmati, stilizzati, impreziositi dal valore aggiunto del design o dal nome proprio, come accade a un paio di scarpe o a una borsetta alla moda.
Nasce, ad esempio, H.DUE.O Flower, il carrello con decorazioni floreali di ispirazione hippy. Foppapedretti, l’azienda famosa per creare oggetti e mobili solidi e innovativi, lancia Go Two e Go Up, due carrelli per la spesa in grado di essere portati senza sforzi anche su per le scale. Si moltiplicano poi le forme e le funzioni delle marche più tradizionali, che si sbizzarriscono a produrre carrelli leggeri, richiudibili, comprimibili, di diverse fogge e dimensioni.
Un’azienda tedesca,
Non più oggetto esclusivo per casalinghe disperate, dunque, ma strumento per trasportare peperoni, bottiglie di vetro riciclabili, pomodori del farmer’s market, accanto a oggetti tecnologici, libri, strumenti di lavoro: sarà la nuova vita del carrello.
Ma ce n’è ancora un’altra, di vita: accanto ai carrelli tradizionali o fashion, pullula nelle strade una vita innominata di carrelli pieni di vecchi oggetti, abiti, accessori, suppellettili, libri, scartoffie di ogni tipo, che i senza casa trasportano da un punto all’altro delle città. Vanno verso i mercati, le bancarelle, le case temporanee e improvvisate. Attingono ai cassonetti degli indumenti smessi, alle parrocchie, all’economia sommersa del rottame che rivive, dell’oggetto sottratto alla distruzione.