mercoledì 16 giugno 2010
Sotto il vestito niente di nuovo. Processo alla "casta" della moda italiana
Articolo e box pubblicati il 2/6/2010 su La Gazzetta del Mezzogiorno
Mi occupo da sempre di linguaggi, segni e culture della moda, ma lo confesso, non ho mai amato la moda “istituzionale”, in particolare quella italiana. Le passerelle kitsch, le pierre affariste, le modelle anoressiche, gli stilisti con i capitali in Svizzera, gli architetti “fashionisti”, i locali lounge milanesi, i concept store di facciata, mi sembrano diventati, soprattutto nell’ultimo decennio, la parodia di quello che era stato l’ambiente del Made in Italy solo fino a vent’anni prima, e l’ulteriore parodia di quell’Italian style che nel dopoguerra seppe realizzare un felice connubio tra moda e ricostruzione anche culturale del Paese. Riesco a mettere in una luce più chiara questo mio personale fastidio attraverso la lettura del libro di Luca Testoni L’ultima sfilata. Processo alla casta della moda italiana (Sperling & Kupfer, 2010) in cui l’autore, giornalista esperto del settore moda, descrive in modo impietoso cosa sia accaduto al tanto decantato Made in Italy vestimentario negli anni Duemila e quale futuro prossimo lo aspetti. Un futuro rovinoso, se diamo attendibilità alla previsione che l’autore proietta nel 2015, anno dell’Expo di Milano, anno in cui – così si apre il libro – si immagina che la Camera nazionale della Moda annulli la rituale settimana delle passerelle di febbraio, con una dichiarazione firmata dalla “Presidentessa”. Dietro questo nickname Testoni cela la nuova anima pasticciona, arrivista e fallimentare che regge oggi il sistema moda mainstream nel nostro Paese. Una vera casta, incapace di riprodurre altro oltre se stessa, e al limite capace di autodistruggersi, come nello scenario paventato dal libro. Uno scenario in realtà già anticipato in avvenimenti reali emblematici avvenuti a Milano, come nel 2005 la riduzione delle giornate della settimana della moda in base a un diktat di fatto della direttrice di Vogue America Anna Wintour, o nel 2009 la revisione continua fino all’ultimo del calendario delle sfilate.
Le ragioni che secondo Testoni hanno portato a questa situazione in Italia sono molteplici: gli eccessi di spese e di lussi al di là del pensabile che hanno imperato in questo settore fino agli anni ’90; l’incapacità di formare esperti della comunicazione moda, dagli uffici stampa ai pierre, che non fossero semplici promoter commerciali, bensì persone in grado di saperci fare con la testa, le parole e i numeri; la totale mancanza di “gioco di squadra” delle aziende; la progressiva sparizione dei capitali verso i paradisi fiscali; la cecità di fronte al fenomeno del pronto-moda che ha fatto invece la fortuna dei colossi spagnolo e svedese dello chic and cheap. A questi si aggiunga la concezione “colonialista” dell’Italia verso i mercati non europei e la miopia rispetto all’emergere in questi anni di nuovi centri della moda propulsivi di idee e valori aggiunti, oltre che in Europa, anche in Africa, Brasile e Asia.
L’autore descrive sarcasticamente il servilismo sfrontato del giornalismo di moda, la realizzazione di redazionali in pratica finanziati dalle aziende inserzioniste o i regali dispendiosi a redattrici e direttrici che le stesse aziende elargiscono a man bassa. Il che ha condotto per decenni all’inesistenza di un vero dibattito critico sulla moda nei giornali, nelle riviste e nelle tv italiane, dove i servizi di moda il più delle volte sono dei panegirici coloriti di questo o quest’altro stilista, in realtà, chiamandole col proprio nome, “marchette”.
Certo, non ci si risveglia appena adesso dal sogno imbambolato della “Milano da bere” passata ormai nelle mani del trash e dell’arroganza generale. Ci sono le mutande di Beckham marchiate dal celebre stilista, le sfilate sponsorizzate dai pomodori, l’azienda di moda uomo che assume come testimonial in passerella nientemeno che Fabrizio Corona, la stupidità che porta l’attuale governo a tentare di creare un marchio “Magic Italy” capace solo di griffare qualche ministra e incapace di affrontare invece il problema di dove e come il Made in Italy ormai si produca realmente, dall’Asia, all’Europa orientale, ai laboratori illegali sul suolo del Bel Paese.
Osservatori onesti e studiosi disinteressati vedevano già da tempo le macerie venture. Il mio primo personale incontro diretto con la Milano delle sfilate avvenne proprio nel Duemila, quando mi affacciai da spettatrice curiosa guidata da una Virgilio di eccezione come Benedetta Barzini, che del sistema moda è da tempo lucida vivisezionatrice, avendone calcato dandisticamente le scene per mezzo secolo e conoscendone bene le signorie e le schiavitù, i talenti e i bluff, le potenzialità e i deliri. E in quel Duemila già poteva vedersi in atto il processo che Testoni porta a conclusione in un’Expo 2015 certamente molto lontana da quelle Esposizioni universali che tra Ottocento e Novecento, a Parigi, a Milano, a Torino, segnarono punti di svolta per la produzione industriale e l’avvio della moda come mezzo di comunicazione di massa.
Oggi non sembra esserci via d’uscita se non si investe nella cultura della moda, in quella vera, dei giovani che spesso – come in tutti gli ambiti – sono costretti a trovare i loro spazi all’estero. Questa “cultura” è stata concepita dalle aziende italiane al massimo come mecenatismo o come commissione al jet architetto o jet designer per il proprio punto vendita a Manhattan o a Shanghai. Tutt’altro è invece il sapere della moda e dei suoi linguaggi, e ben fanno le scuole di moda a occuparsene, salvo poi purtroppo trasformarsi spesso in formatrici di intelligenze che espatriano. La miopia è dell’intero attuale “sistema Italia” che non investe né in formazione né in ricerca e che in tal modo alimenta le sue caste. Il sistema della moda è una spia allarmante di quanto possa ancora accadere in questo Paese e della sua progressiva marginalizzazione.
“Sympathy for the Unusual” mette insieme arte, design e web per creare T-shirt, oggetti di moda su cui da sempre si esercita la fantasia pittorica e grafica più immaginativa del nostro tempo, oggetti di comunicazione a tutti gli effetti. I due ideatori del progetto – Angelo Superti e Ruggiero Dipaola – si avvalgono programmaticamente della collaborazione di artisti incontrati sul web e della rete come mezzo di diffusione e vendita. Il marchio è presente al momento in 14 boutique prestigiose in Puglia e in significativi concept-store ad Amsterdam, Barcellona, Stoccolma e New York.
“Discipline” è un progetto finanziato dal Bando della Regione Puglia “Principi attivi” e concepisce la moda come un connubio tra immaginario collettivo, musica e cultura. La collezione del 2010 si ispira per esempio al Ballo Black and White organizzato a New York nel 1966 dallo scrittore Truman Capote. I 4 giovani collaboratori, Barbara Laneve, Marino Bombini, Cesare Morisco e Gae Antonacci, definiscono la loro pratica di lavoro come una “piattaforma” per lanciare idee, proprio come le piattaforme spaziali o quelle digitali.
“Millenovecento”, anch’esso un progetto vincitore di “Principi Attivi”, è contemporaneamente un museo della moda, un negozio vintage e un laboratorio di creazioni su richiesta, animato dalla raffinata cultura di Luciano Lapadula e Vito Antonio Lerario. Nei suoi locali nel centro di Bari si possono trovare creazioni di nomi famosi come Schiaparelli, Simonetta o Dior risalenti agli anni dai ’30 ai ’50, abiti storici di inizio Novecento, vintage anni ’80, minigonne alla Patty Pravo anni ’60 e un ambiente interamente ispirato al secolo della moda. Hanno creato costumi per video musicali, partecipato a seminari universitari, e di recente prodotto abiti per uno spot della Apulia Film Commision che promuove la Puglia come set cinematografico.
Il Corso di Moda l’anno prossimo chiuderà, si spera solo temporaneamente perché ci sarebbe da investirci davvero in risorse umane ed economiche, invece che far passare sulla sua testa i “tagli”, quelli sì molto di moda in questo periodo.
Metti tecnologia nel guardaroba
Articolo pubblicato su La Gazzetta del Mezzogiorno del 15/6/2010
La notizia potrebbe ulteriormente accalorare i lettori, in una stagione estiva già di per sé infuocata come quella che stiamo vivendo, ma vale la pena di rifletterci sotto vari aspetti: la Moessmer , storica azienda di loden di Brunico, ha brevettato di recente un nuovo tessuto completamente ignifugo. Principale utilizzo di questa stoffa sarà ovviamente la tappezzeria, dai tendaggi ai rivestimenti di poltrone e divani, ma immaginiamo anche che non sarà escluso dal novero degli oggetti così fabbricati l'abbigliamento, visto che di tessuto loden pur sempre si tratta e che l'idea di un indumento protettivo in ogni senso è radicata nel costume umano sin da quando uomini e donne hanno cominciato a rivestire i loro corpi. Possiamo dunque ipotizzare che prenderanno presto forma cappotti, giacche, completi maschili e femminili, che alla tradizionale consistenza culturale del loden sud-tirolese uniranno la pregiatezza di una protezione tutta naturale. E in questo come in altri casi, la “naturalità” è un valore aggiunto di eccezione, che accompagna il faticoso processo che la moda sta attraversando in alcuni suoi ambiti, nei quali l'indumento tenta di comunicare una consapevolezza e un senso etico riguardo alla sostenibilità dei suoi processi di produzione e circolazione.
Proteggere e attrarre sono due ragioni fondamentali del senso che attribuiamo – in quanto esseri umani – al fatto stesso di vestirci in fogge diverse, di seguire la moda, di scegliere certi indumenti, certi colori, certi stili che regolano e scandiscono il nostro apparire nel mondo. La moda ha una natura duplice: da un lato marca le zone di contatto tra gli indumenti e il corpo mettendo in azione i sensi; dall’altro colloca il corpo individuale entro quello sociale, istituzionalizza sensi e pulsioni in una “media” sancita dal gusto come senso comune. Questo senso comune è oggi prevalentemente il “mordi e fuggi”: la ridotta disponibilità di denaro da consumare in vestiti e accessori ci ha fatto abituare all'idea low cost anche dell'abito, come del viaggio o dell'arredamento.
Parallelamente a questa idea cresce però nel sentire comune anche un desiderio di maggiore sicurezza e durata legato finanche a forme di consumo “frivolo” come un vestito o un paio di scarpe. Matura l'idea di un “lusso” accessibile e non effimero fondato proprio sulla qualità ed “eternità”, per così dire, di quanto indossiamo. Movimento contrario, ma complementare, rispetto al “pronto moda”, a quanto potremmo definire “accaemmizzazione” o “ikeizzazione” dei consumi quotidiani, fondati certamente su un concetto democratico di stilismo e design per tutti, ma anche su una organizzazione globalizzata del lavoro che punta a produrre oggetti, beni o servizi, quando c'è domanda, spesso però senza badare al come, al dove, a quali condizioni si produca e che cosa si produca. Ecco allora che brevetti come quello dell'azienda altoatesina divengono preziosi, a condizione che possano essere di sprone per la qualità, l'innovazione e la ricerca in un ambito tanto devastato come il Made in Italy nel settore del tessile e abbigliamento.
Se da un lato l'idea di tessuto naturale è preziosa, soprattutto per la cultura manifatturiera italiana, dall'altro, però, la tecnologia continua ad essere un elemento importante nell'ambito delle innovazioni possibili anche nella moda. Spiccano, nel novero delle tecnologie naturali, semplicissime e comodissime idee come per esempio quella della borsetta dotata di cellula fotovoltaica che permette di ricaricare il cellulare o il lettore mp3 mentre vi viene custodito dentro, o quello del contenitore per il notebook in grado di alimentarlo direttamente con l'energia solare. Più sofisticate le nanotecnologie applicate ai tessuti, ormai sperimentate nella produzione di indumenti tecnici sportivi e da lavoro che mantengono e producono calore o che proteggono dalle radiazioni elettromagnetiche. Anche la geolocalizzazione viene “incorporata” nel tessuto così che, per esempio, una uniforme militare così confezionata può fungere da “antenna” per conoscere dove si trovi ciascun soldato in un campo di battaglia. L'abbigliamento sportivo può assumere invece il compito di monitorare direttamente a contatto con il corpo i battiti cardiaci o la pressione sanguigna di un atleta. E poiché nella storia della moda, le uniformi degli eserciti e quelle sportive hanno spesso fornito ispirazioni celebri, come il bomber, il cardigan e lo stile casual, immaginiamo che anche da tali applicazioni che coniugano abito e tecnologia qualcuno possa prendere spunti interessanti.
L'ultima idea è stata lanciata, in collaborazione con una multinazionale della comunicazione, da Guru, l'azienda che una decina di anni fa lanciò le celeberrime magliette con la margherita, ma che dopo pochi anni andò in bancarotta per gli eccessi sconsiderati del suo proprietario. Questa azienda è stata di recente acquistata da un brand indiano è metterà alla prova delle vendite durante questa estate la “social T-shirt”. Si tratta di una maglietta che riporta impressa sul petto, al posto delle canoniche scritte, il codice QR, quello che compare ormai su molti giornali e che – inquadrato dal telefono cellulare dotato di un software apposito – permette di risalire a informazioni sempre aggiornate. Chi indossa questa maglietta potrà aggiornare il proprio status proprio come si fa su Facebook, grazie a un’apposita applicazione; sempre grazie al medesimo software, il messaggio verrà decodificato per tutti “gli amici” del gruppo che potranno anche essere geolocalizzati ovunque si trovino, magari anche tra le amene montagne intorno a Brunico dove ha sede l'azienda di loden citata all'inizio.
Tra natura e tecnologia, le strade che si aprono al settore moda sono tante, ma saranno in grado le politiche al tempo della crisi di promuovere le innovazioni migliori e soprattutto di attrarre la ricerca, soprattutto quella che coniuga sostenibilità, praticità ed esteticità? Creerà futuro quel modello che risponderà sì a questa domanda.
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