mercoledì 10 dicembre 2014
martedì 2 dicembre 2014
Ancora su Mina e la TV italiana dei '60
In occasione del Seminario "60, ma li dimostra? Tv, linguaggi, società", la presentazione dell'intervento su:
"Mina e la RAI degli anni '60"
Clicca qui per aprire la presentazione
giovedì 27 novembre 2014
martedì 18 novembre 2014
25 novembre - Seminario con Louise Wallenberg
Abstract: Throughout history, wild and domestic animals have had several functions in various forms of representation: they have occupied central positions in literary works (as anthropomorphised animal), they have been used in painted and photographed portraiture, in film and theatre, and in fashion imagery. Animals – alive or dead (and if dead, then most often in parts) – have been used to indicate social, economic and gendered status, and they have been used as allegories communicating political and social meanings. In addition, they have often been used as pure objects of fashion conveying notions of gender, exoticism, eroticism and danger.
The animal trope, then, is perpetuated across the entire terrain of representational media, and their relation is formed by a pendular desire moving between love and fear. While our wanting to become like an animal and our over-empowering love for them is portrayed as romantic, our fear of the animal, and of becoming animal, forms the truly horrific in many narratives. In the first scenario, it is a matter of becoming one with the loved Other. In the second, it is a panicking fear of becoming the Other, and in this becoming, losing one’s humanity and losing control.
This pendular desire between loving, longing and fear persists in fashion imagery too. Here, women models in particular are portrayed as being one with the animal. No matter their size and their wildness, the models emerge as half-animals themselves. While such representations are often/typically misogynist and sexist, in this article I seek to re-read the juxtaposition of women models and the animal in fashion imagery through the lens of Gilles Deleuze and Felix Guattari’s (1980/1996) notion of ‘becoming-animal’. Through this prism, I argue that fashion imagery of ‘animal’ women can be reread as a powerful representation of female inclusion and freedom.
Key words: ‘becoming-animal’, fashion imagery, Deleuze & Guattari, feminist practice
The animal trope, then, is perpetuated across the entire terrain of representational media, and their relation is formed by a pendular desire moving between love and fear. While our wanting to become like an animal and our over-empowering love for them is portrayed as romantic, our fear of the animal, and of becoming animal, forms the truly horrific in many narratives. In the first scenario, it is a matter of becoming one with the loved Other. In the second, it is a panicking fear of becoming the Other, and in this becoming, losing one’s humanity and losing control.
This pendular desire between loving, longing and fear persists in fashion imagery too. Here, women models in particular are portrayed as being one with the animal. No matter their size and their wildness, the models emerge as half-animals themselves. While such representations are often/typically misogynist and sexist, in this article I seek to re-read the juxtaposition of women models and the animal in fashion imagery through the lens of Gilles Deleuze and Felix Guattari’s (1980/1996) notion of ‘becoming-animal’. Through this prism, I argue that fashion imagery of ‘animal’ women can be reread as a powerful representation of female inclusion and freedom.
Key words: ‘becoming-animal’, fashion imagery, Deleuze & Guattari, feminist practice
mercoledì 12 novembre 2014
martedì 11 novembre 2014
giovedì 6 novembre 2014
mercoledì 29 ottobre 2014
lunedì 27 ottobre 2014
giovedì 23 ottobre 2014
Il corpo, la moda e la "seconda natura"
XLII Convegno dell'Associazione Italiana di Studi Semiotici AISS, Teramo 24-25 ottobre 2014
"Tra natura e storia: naturalismi e costruzioni del reale"
"Tra natura e storia: naturalismi e costruzioni del reale"
Presentazione di Patrizia Calefato in supporto all'intervento
Il corpo, la moda e la "seconda natura"
Il corpo, la moda e la "seconda natura"
mercoledì 22 ottobre 2014
martedì 14 ottobre 2014
martedì 7 ottobre 2014
lunedì 29 settembre 2014
lunedì 22 settembre 2014
Ma quanto è maschio il tuo décolleté!
(La Gazzetta del Mezzogiorno del 14/9/2014)
Venti d’autunno, e gli scolli degli abiti delle donne si
chiudono sotto sciarpe leggere e freschi baveri. Restii all’impresa di
nascondere e costringere il collo si scoprono invece sorprendentemente gli uomini, che cercano in ogni modo di
sottrarsi al destino dell’uniforme quotidiana che li vorrebbe incravattati e
accollati in ogni stagione. E la moda li aiuta, soprattutto quella moda che
vive non tanto come ultima novità, quanto come storia già vissuta e citazione
anche inconsapevole di immagini già viste e fatte rivivere nell’attualità.
E’ certamente vero che dire “décolleté” significa riferirsi per
antonomasia a quello femminile, sia se lo si intenda come parte del corpo, sia
se si usi questo termine per definire il modo in cui un indumento termina intorno
al collo. Eppure il décolleté rappresenta anche per gli uomini un elemento
complesso e fortemente valorizzato, sul piano simbolico come su quello pratico.
Basti pensare proprio ai modi diversi in cui si manifesta la forma più comune e
classica di scollo maschile: il nodo della cravatta. Si va dal “nodone” che
quasi strangola il pomo d’Adamo intorno alla camicia che più abbottonata non si
può, a forme più “rilassate” di cravatte sottili – ritornate oggi nuovamente in
auge – col nodo piccolo, fino alla possibilità che questo nodo si allarghi
mentre il primo bottone del colletto della camicia sguscia via dall’asola
lasciando libera la base del collo.
Ed è proprio lì, alla
base del collo, che hanno inizio le varietà dei décolleté maschili, che, sebbene
gli uomini tendano a sottovalutarlo, non hanno nulla da invidiare a quelli
femminili in quanto a componenti erotiche, estetiche e simboliche. Ecco allora
che la camicia sbottonata già comincia a declinare queste componenti possibili,
comprese certo quelle più discutibili se non raccapriccianti, se si pensa, per
chi se li ricorda, a certi décolleté maschili anni ’70: camicia stretta sui
fianchi e aperta sotto la gola, catena d’oro con patacca o croce massiccia incuneata
tra i peli del petto. Divisa e simbolo di boss e magnaccia più o meno
dichiarati, ma anche – ahimé! – indumento preferito, e non solo a quel tempo,
da personaggi illustri del mondo dello spettacolo. Ne fu emblema Johnny
Hallyday, rock star francese sin dai primi anni ‘60, che dello scollo con catena
fece la sua “divisa”.
Vittorio Gasmann in Il
sorpasso (1963) introdusse la camicia bianca appena sbottonata sul petto,
tipica della moda di quegli anni, che caratterizzava però nel film
efficacemente il suo personaggio un po’ cialtrone, un po’ eterno bambino,
emblematico della società italiana del tempo. Interessante notare come possa,
quella camicia aperta e sbottonata, essere anche considerata l’antesignana dell’uso
casual di candide camicie appena
sbottonate, dette qualche anno fa “alla Obama”, e più di recente in Italia “alla
Renzi”, che nella comunicazione politica intendono dare un senso di vicinanza,
familiarità, parola diretta, a contrasto con l’impomatata e ingessata immagine
dell’uomo politico più tradizionale e conservatore.
Slacciarsi la cravatta e sbottonarsi in profondità la
camicia ha però per l’uomo un’incognita: andando giù lungo il petto al di sotto
della barba, incolta o rasata che sia, si apre una foresta di peli o una
distesa setosa di pelle? Fino alla fine dello scorso secolo il petto villoso maschile
non è stato un problema: gli uomini sembravano tutto sommato indifferenti ad
esibire i loro peli, anche quelli talmente folti da non avere soluzione di
continuità con la barba. Invece, da una ventina d’anni molti uomini sono stati
colpiti dall’ossessione del décolleté glabro, e hanno preso a depilarsi non
necessariamente per ragioni pratiche, come capita ad alcuni sportivi, ma per
ragioni estetiche in tutto simili a quelle per cui le donne si depilano le
gambe, le sopracciglia o le ascelle. Una pelle glabra, liscia, lucida, sembra
infatti assumere valorizzazioni positive, legate a concetti quali giovinezza,
tensione muscolare, seduzione, femminilità. La cultura visuale rappresentata
dal cinema e dalle sue star conosce immagini esemplari in questo senso, sin
dalle origini. Rodolfo Valentino non lesinava scollature nei suoi film, come Lo sceicco (1921) nel quale indossa il
costume “arabo” aperto sul petto setoso, o Il
giovane raja (1922) dove compare con il busto attraversato da abiti-gioiello
di ispirazione orientalista creati dalla sua seconda moglie Natacha Rambova.
Un habitué del décolleté, e spesso del petto nudo totale,
nel cinema è stato Paul Newman: è con indosso solo un asciugamano stretto sui
fianchi che fugge da una camera d’albergo nel film Intrigo a Stoccolma (1963); è con la camicia bianca aperta fino
alla vita che si fa visitare da una dottoressa in Il sipario strappato (1966), uno dei pochi film di Hitchcock in cui
è il protagonista maschile e non quello femminile ad essere costruito come
oggetto sessuale. La coppia Paul Newman – Robert Redford si presenta in La stangata (1973) con due straordinari
décolleté: canottiera sotto salopette jeans per il primo, glabro; camicia
sbottonata e bretelle per il secondo, invece villoso. Intramontabili. E,
parlando di Redford, è impossibile tacere della sua camicia celeste, eterna, dai
Tre giorni del condor (1975) a La regola del silenzio (2012), portata
con il primo bottone aperto.
Altro protagonista del décolleté nel cinema è stato Marlon
Brando, in molteplici versioni: la T-shirt con scollo tondeggiante del suo
personaggio di Stanley Kowalski in Un
tram che si chiama desiderio (1951), la cravatta stretta al collo sul petto
nudo di Viva Zapata (1952) in cui
interpreta il grande rivoluzionario messicano, la toga che copre solo una parte
del tronco lasciando il petto scoperto nel film Giulio Cesare (1953) in cui è Marco Antonio. Il nudo integrale di Brando-Paul
in Ultimo tango a Parigi (1972)
risulta a confronto del tutto irrilevante: meglio la sua maglietta bianca
intima a maniche corte che indossa nello stesso “scandaloso” film.
Questi modelli classici danno continua ispirazione alle mode
contemporanee, che moltiplicano sia sulle passerelle che per le strade le forme
possibili del décolleté maschile: maglie con scollature a V, ovali, arrotondate,
quasi strappate sul petto, che alludono a Valentino o a Newman; T-shirt che
sembrano magliette intime proprio come quelle di Kowalski e di Paul; modi di
slacciare la camicia che seguono le orme di Redford. La tornitura dei muscoli
dà a volte, in certe fotografie di moda, o su certi modelli quotidiani che si
incontrano per strada, l’idea di un décolleté maschile molto somigliante al
solco di un seno femminile. Si evoca così quella bisessualità probabilmente
intrinseca in ciascuno di noi, quel confine spesso indistinto tra i generi su
cui la moda gioca alimentando la libertà e la molteplicità dell’immaginario.
domenica 7 settembre 2014
Programma di Sociologia dei processi culturali e comunicativi - Lingue
Sociologia dei processi culturali e comunicativi 2014-15 - Taranto
Programma Linguistica generale 2014-15
Università degli Studi di Bari
Dipartimento di
Lettere, Lingue Arti. Italianistica e Letterature Comparate
Corso di laurea L11 - Culture delle Lingue moderne e del turismo
Crediti attribuiti all’insegnamento:
· curriculum Lingue e culture
moderne, I anno: 8 CFU
· curriculum Lingue e culture
moderne, Lingue moderne per il turismo, II anno: 7 CFU
Semestre nel
quale è svolto l’insegnamento: I
- Obiettivi del corso: Gli/le studenti dovranno essere
in grado di comprendere la dimensione sociale del linguaggio.
– Contenuti del corso: Il
corso analizzerà alcuni aspetti della linguistica contemporanea,
approfondendo in particolare il ruolo sociale del linguaggio. Verranno
sviluppati i seguenti argomenti: nome proprio e brand, nuovi media e
comunicazione, il sistema della moda.
- Organizzazione del corso: lezioni, seminari, esercitazioni.
– Bibliografia essenziale per lo studio della disciplina:
- Patrizia Calefato, Che nome sei?, Roma, Meltemi, 2006. Il libro risulta non disponibile e/o esaurito. Si rende pertanto necessaria per ragioni didattiche la sua diffusione in formato digitale. Il volume è scaricabile a questo link.
- Roland Barthes, Il senso della moda, Torino, Einaudi, 2006.
- Augusto Ponzio, Il linguaggio e le lingue, Milano, Mimesis, 2013.
– Modalità
di svolgimento dell’esame finale: l’esame finale viene svolto con un colloquio
orale che riguarda i temi inerenti il corso.
martedì 5 agosto 2014
Altro che balconi, l’estate è un décolleté
di Patrizia Calefato
(La Gazzetta del Mezzogiorno del 20/7/2014)
Spogliarsi dei colli, delle sciarpe, dei colletti e dei foulard
dell’inverno, dare alla pelle tra il mento e il torace la possibilità di
respirare libera e di farsi attraversare dai raggi del sole anche quando si
cammina per strada di giorno. La sera, invece, farle assaporare la brezza, e
insieme dare al proprio stile un tocco di eleganza. Parliamo di scolli, ovvero
dei vari modi in cui le donne hanno usato e usano liberarsi dei vincoli di
stoffa, merletto, pelle o lana che sia, che occultano il collo, liberando
invece, complice la moda, la parte che sta esattamente tra il collo e il seno,
detta in francese non tradotto décolleté.
Se il décolleté
sia la parte del corpo o il modo in cui essa viene “incorniciata” dalla
scollatura, è questione ambigua. Nell’uso comune della lingua, décolleté vuol dire infatti entrambe le
cose: cioè sia, letteralmente, la scollatura dell’abito, sia la parte alta del
petto. Detta così, quest’ultima sembra un po’ un’espressione da usare più dal
pollivendolo che in boutique, ma al complimento “Che bel décolleté!”
difficilmente si resta indifferenti. Potremmo definirla una zona di confine tra
i segni del volto, votati a significare la riconoscibilità e l’espressività
della persona, e il seno, parte direttamente legata alla dimensione erotica e
carnale della corporeità femminile. C’è poi anche un uso esteso della parola décolleté, che scivola dal petto ai
piedi per indicare quel genere di scarpe che scoprono il collo, appunto, del
piede. Ma restiamo qui a parlare di petti e colli propriamente detti.
L’estate e la moda sono artefici dei passaggi anche
repentini dalle accollate costrizioni di colli dolcevita e lupetti alle
aperture più fantasiose del décolleté, una zona del corpo che le donne, in
varie culture ed epoche, hanno avuto la possibilità di scoprire e decorare con
molta maggiore libertà e fantasia degli uomini, fortunate almeno in questo. Non
analoga sorte è toccata al décolleté maschile, dotato di una poetica del
rivestimento e dell’ornamento forse meno culturalmente celebrata di quella
femminile, ma sicuramente altrettanto interessante nell’immaginario sociale. Ma
andiamo con ordine.
E partiamo dalle tre “ultime trovate” che l’estate in corso
dedica agli scolli femminili, ultime trovate per modo di dire, in quanto si
tratta di quei ricorsi storici frequenti nella moda, quel sistema sociale che
si caratterizza proprio per i “balzi di tigre” che compie all’indietro nel
tempo per poter vivere nel presente, come diceva il filosofo Walter Benjamin.
Spesso le parole della moda utilizzano metafore come nei tre casi che
rappresentano le tre “trovate” in questione dell’estate 2014: lo scollo a barca,
quello all’americana e quello a V. La sagoma arrotondata e insieme affusolata
di un natante è quella evocata dalle scollature definite appunto “a barca” che
incorniciano la base del collo, non lasciando molto di scoperto, se non i due
pezzi di pelle che vanno verso le spalle. Il collo a barca fa molto brava
ragazza e si accorda in modo perfetto con il revival del new look – corpetti striminziti e gonne ampie al ginocchio – che
Christian Dior inventò sul finire degli anni ’50, e che torna ancora e ancora
fino ai nostri giorni. Nel cinema classico, lo porta nel film Arianna (1957) Audrey Hepburn, quando va al Ritz, il celebre hotel di Place Vendôme a
Parigi, a trovare il maturo donnaiolo Gary Cooper che crolla però come un
innamorato imberbe e per sempre fedele di fronte alla giovane Arianna col suo
vestitino fantasia e il suo lungo collo incorniciato da una immaginaria
barchetta.
Lo scollo all’americana
– che viene abbottonato dietro la nuca e lascia libere le scapole - è stato
invece riesumato di recente forse ispirandosi alla accurata ricostruzione del
guardaroba di Grace Kelly fatta nel recente film Grace of Monaco (2014) a lei dedicato interpretato da Nicole
Kidman. Questo genere di scollatura non appartiene però al periodo in cui Kelly
fu principessa di Monaco. L’ispirazione è presa invece dalla scena di un altro film,
Caccia al ladro (1955) di Alfred
Hitchcock, in cui lei lo indossa a suggello sensualissimo di un eccentrico
completo da mare bianco e nero con tanto di cappello a falde larghe, che fa
sobbalzare per la sua estrosità perfino il compunto Cary Grant. Che lo scollo si
chiami “all’americana" nel lessico italiano della moda si deve
probabilmente al fatto che esso ebbe molta popolarità in USA sin dagli anni ’40
del Novecento: non a caso il personaggio interpretato da Grace Kelly nel film
ambientato in Costa Azzurra è proprio quello di un’americana in vacanza. Oggi
lo scollo all’americana impreziosisce soprattutto casacche squadrate su
pantaloni larghi e morbidi, un insieme che cita esplicitamente quell’abito
cinematografico dovuto all’opera della grande costumista di Hollywood Edith
Head.
Il terzo scollo della nostra estate 2014 è quello detto a V,
vertiginoso come quelli dei vestiti che indossa l’attrice Amy Adams nel film
dell’ultima stagione American Hustle
(2013). Citazione esplicita direttamente presa dagli anni ’70 nel film, lo
scollo a V richiede seni piccoli perché vi si insinua profondamente in mezzo
rifiutando l’ostacolo del reggiseno ed evocando i tempi in cui se ne faceva
tranquillamente a meno senza ossessioni di chirurgia estetica e obblighi di
quarte misure. La V del nome ci ricorda, come diceva Roland Barthes, che la
moda inscrive il corpo in “uno spazio sistematico di segni”, dove anche la
lettera dell’alfabeto può diventare principio di metafora e di racconto.
Per continuare con le scollature a ispirazione
cinematografica, e andando verso le immagini intramontabili di questo scenario
tra moda e cultura visuale, non si può non ricordare quella, strepitosa, a
balconcino di Sophia Loren che fa lo striptease in camera da letto per Marcello
Mastroianni in Ieri, oggi, domani
(1963). In questo caso, la metafora del “balconcino” richiama sia il seno che
si appoggia sullo scollo, come se stesse al balcone, sia l’immaginario del
balcone come luogo da cui si guarda una scena, chiamando così in causa
l’aspetto visivo, finanche voyeuristico, che la moda come forma di
comunicazione implica. In questa stessa logica si pone la scollatura fasciata
di Marilyn Monroe che, in Gli uomini
preferiscono le bionde (1953), balla e danza inneggiando ai diamanti
preferiti dalle ragazze. In un’ottica di décolleté romantico vive nel nostro
immaginario lo scollo a cuore sul vestito scarlatto che Julia Roberts indossa
una sera a teatro con Richard Gere nel film Pretty
Woman (1990).
Come in ogni segno che si rispetti, il décolleté conosce
anche il suo opposto, quello in cui è la schiena, e non il petto, ad essere
scoperta, come accade a Kim Novak, nella scena del ristorante nel film La donna che visse due volte (1958).
Scollo posteriore anche per Faye Dunaway nel film Il caso Thomas Crown (1968), nella scena carica di erotismo in cui gioca
a scacchi con Steve McQueen. In questo caso, l’abito morbido di Dunaway è
chiuso all’americana sul davanti lasciando completamente scoperta la schiena
fino alla vita sul didietro.
Basta lo scollo
dell’abito a fare un décolleté? A volte sì, a volte occorre insistere con i
segni, impreziosendo con una collana la zona nuda. Tra gioielli e bijou la
scelta è aperta.
(continua, nel prossimo articolo décolleté uomini)
lunedì 30 giugno 2014
Sotto gli occhiali niente, ma anche tutto il fascino
(Da "La Gazzetta del Mezzogiorno del 29/6/2014)
Chi l’ha detto che d’estate i corpi tendono solo a scoprirsi?
Certo, fa caldo, ci si alleggerisce, si ripongono negli armadi invernali calze,
maglioni, guanti e giacche; le braccia, le gambe e i décolleté si liberano di
maniche, pantaloni lunghi e colli a prova di mal di gola. E’ alla testa però
che succede qualcosa di strano e curiosamente inverso rispetto alla generale
tendenza. La testa d’estate infatti non smette di ricoprirsi: con i cappelli,
saggi riparatori dai raggi solari, ma soprattutto con gli occhiali da sole, a
proposito dei quali, più che di testa in generale, parliamo di volto in
particolare. Tratto distintivo, e all’estero spesso stereotipato,
dell’“italianità”, certamente gli occhiali da sole si indossano sia d’estate
che d’inverno, soprattutto in quei luoghi del Bel Paese dove anche a gennaio
può esserci una luce naturale intensa, Sud o alta montagna che sia. E’ però
specialmente nella bella stagione che gli occhiali da sole svolgono a pieno la
loro funzione primaria di proteggere i nostri occhi dai raggi ultravioletti,
minaccia seria per la vista.
Non è da molto tempo nella
storia dell’umanità che la protezione degli occhi dal sole viene affidata alle
lenti. L’uso di cristalli e pietre preziose smerigliate per ingrandire le
immagini è testimoniata nell’antichità latina, mentre le prime lenti da vista
compaiono intorno al Tredicesimo secolo. Ma l’oscuramento delle lenti allo
scopo di temperare la luce naturale ha una storia molto più recente, che risale
appena alla fine dell’Ottocento, con i primi tentativi, e poi decisamente al
Novecento. Precedentemente, solo i popoli dei ghiacci, come gli Inuit, avevano
usato pezzi di legno o di osso sugli occhi che lasciavano la possibilità di
vedere attraverso un piccolo buco al centro, allo scopo di sopportare la luce
micidiale riflessa delle loro latitudini. Presso altre società si ricorreva invece
ai tessuti avvolti intorno al viso, ai veli, ai cappelli a falde larghe e con
visiera, agli stessi capelli, quando tutto mancava per proteggersi.
Le “protesi” scure fatte di vetro e tenute ferme dietro le
orecchie in forma di occhiali si diffusero in modo crescente a partire dall’uso
che intorno agli anni ’30 del Novecento ne fecero per primi gli aviatori e i
piloti automobilistici. La moda è stata spesso
debitrice sia della guerra che dello sport: moltissimi usi, segni ed oggetti di
moda, come nel caso degli occhiali da sole, si sono ispirati alle divise
militari, da un lato, e alle tenute sportive, dall’altro. Tanto da far pensare
che una delle funzioni delle guerre sia stata quella di compensare la
distruzione di vite e territori attraverso la conservazione simbolica o fisica
di indumenti e accessori legati alle uniformi. L’ispirazione sportiva si spiega
invece nel fatto che, proprio a partire dal primo Novecento, lo sport diviene
una forma di intrattenimento, spesso spettacolare, destinato alle masse, esattamente
come la moda, che nella modernità non è più una prerogativa aristocratica e
cortigiana, ma una forma di socialità quotidiana.
Nel 1937 Edwin Land fondò la Polaroid, che cominciò a
produrre in serie occhiali da sole con il filtro polarizzante inventato proprio
da Land. Protezione degli occhi e glamour divennero a questo punto un binomio
inscindibile, dal momento che la moda, il cinema e la pubblicità iniziarono a
diffondere nell’immaginario sociale l’idea di mistero, fascino, forse anche
malìa, trasmessa da uno sguardo che si nasconda sotto oscure lenti. I divi di
Hollywood li usarono come maschera per giocare al nascondimento/riconoscimento.
Le pagine delle riviste di moda dell’epoca classica di “Vogue” e “Harpers’
Bazaar” – tra i ’50 e i ’60 – si riempirono nei mesi estivi di modelle
occhialute. Fu merito degli occhiali da sole di Audrey Hepburn in Colazione da Tiffany (1961), gli
intramontabili Wayfarer, la valorizzazione positiva della donna con gli
occhiali, per lo meno con gli occhiali da sole. Proprio il cinema hollywoodiano
aveva invece spesso enfatizzato negativamente i personaggi femminili dotati di
lenti da vista: maestro di questa operazione fu Alfred Hitchcock, che per
esempio in Vertigo (La donna che visse due volte, 1958)
contrappose simbolicamente la bellissima ma colpevole Kim Novack, di cui si
innamora il protagonista James Stewart, al personaggio della disegnatrice di
moda interpretato da Barbara Bel Geddes, che però porta ahimé gli occhiali e
che pertanto può essere per lui nulla più che una “fraterna” amica. Certo,
Marilyn Monroe aveva “giocato” con il fascino degli occhiali da vista nel film Come sposare un milionario (1953), dove interpretava
la parte di una modella terribilmente miope, ma lei era un’eccezione, appunto.
Mentre gli occhiali da vista segnalano comunque simbolicamente
una condizione di handicap del corpo, sia pure lieve e comune alla maggior
parte degli esseri umani, gli occhiali da sole sembrano invece esprimere una
condizione di potere del corpo: non si sa cosa lo sguardo possa nascondere,
potenzialmente tutto o niente, in ogni caso qualcosa che si sottrae
all’interpretazione univoca da parte dell’altro. Intendiamoci: ragioniamo su
segni i cui significati si legano a sfumature, e che possono spesso
capovolgersi nel loro contrario. Che senso dare, per esempio, all’immagine del musicista jazz Miles Davis
in quella copertina storica del disco ‘Round
Midnight del 1957, in cui gli occhiali da sole contribuiscono in modo
determinante a rendere la sua espressione distaccata e calma, con un po’ di
malinconia, e a farne l’emblema cool
del suo genere musicale? Da quella versione cool sono derivati, nel cinema, gli
occhiali celeberrimi dei Blues Brothers (1980), quelli delle Jene di Quentin Tarantino (1992), quelli
dei Men in Black (1997 e 2002). Coronamento cinematografico, il techno-cool di Neo,
protagonista della saga di Matrix (1999-2003).
Gli occhiali
da sole sono un capo di moda verso cui genere maschile e genere
femminile sembrano ugualmente molto interessati, insomma. Prova ne siano, per
gli uomini, altri pezzi storici, che dal cinema hanno segnato la moda, come i
Persol di
Marcello Mastroianni in Divorzio
all’italiana (1962), di Steve McQueen nel film icona di stile Il caso Thomas Crown (1968), di Daniel
Craig che in Skyfall (2012) prosegue la
lunga tradizione degli 007 occhialuti.
Qualche giorno fa il maggiore gruppo mondiale degli
occhiali, Luxottica, ha commissionato al più celebre blogger fotografico di
moda, Scott Schuman autore del Sartorialist
(www.sartorialist.com), il progetto Faces
by the Sartorialist (facce da Sartorialist) destinato a ricercare per le
strade delle città del mondo in cui già il blogger lavora, da New York a
Firenze a Stoccolma, tutte le facce con gli occhiali che possano rappresentare
un’originale eleganza di strada. Ce ne saranno certamente di ogni tipo: ma tra
gli occhialoni chiari da nerd e le lenti scure più cool sarà una bella
competizione.
La stessa Luxottica ha da poco anche siglato un accordo con
Google per realizzare il design e l’innovazione di una nuova generazione dei Google
Glass, gli occhiali che rendono accessibile e indossabile la “realtà aumentata”.
Una realtà che ha certamente delle componenti oscure sulla sua superficie, o su
quella degli occhiali che ce la sveleranno.
Box
Non è da molto tempo nella storia dell’umanità che la
protezione degli occhi dal sole viene affidata alle lenti. L’uso di cristalli e
pietre smerigliate per ingrandire le immagini è testimoniata nell’antichità
latina, mentre le prime lenti da vista compaiono intorno al Tredicesimo secolo.
Ma l’oscuramento delle lenti allo scopo di temperare la luce naturale ha una
storia molto più recente che risale agli anni ’20 del Novecento. Solo i popoli
dei ghiacci, come gli Inuit, per sopportare la luce micidiale riflessa delle
loro latitudini, usavano sin dall’antichità coprirsi gli occhi con pezzi di
legno o di osso che lasciavano la possibilità di vedere attraverso un piccolo
buco al centro. Presso altre società si ricorreva invece per proteggersi ai
tessuti avvolti intorno al viso, ai veli, ai cappelli a falde larghe e con
visiera, agli stessi capelli, quando tutto mancava.
martedì 6 maggio 2014
Se il corpo in scena fa vivere le immagini: "Pupilla" di Valeria Magli
“E’ la tua pittura una forma di danza, o Valeria col piede
pensante”, scrisse nel 1983 Francesco Leonetti a Valeria Magli. Bolognese,
laureata in Filosofia con Luciano Anceschi, Magli propone un genere unico in
cui il corpo è al centro, in cui ogni muscolo e ogni nervo è pensiero,
concetto, elemento di connessione.
Incontro Valeria Magli a Ruvo di Puglia, presso il teatro
Comunale, dove sta ultimando la preparazione della prima nazionale (Bisceglie,
Teatro Garibaldi, 3 maggio) di Pupilla
1983-2014. Trentuno anni che riannodano i pensieri e i movimenti: nello
spettacolo del 1983 era lei sola in scena, oggi sono tre giovani ballerine
della Dance-Haus Company di Milano a interpretare le molteplici figure
attraverso cui vive la protagonista di Pupilla:
Chiara Monteverde, Armida Pieretti e Susan Vettori. Magli torna in Puglia dopo
14 anni: era stata l’ultima volta a Bari, presentando una performance
nell’ambito dell’iniziativa Tra il dire e
il fare dedicata al pensiero e alla creatività femminili, e prima ancora aveva
partecipato, agli inizi degli anni ’90, a un’altra iniziativa sullo stesso tema
presso Santa Scolastica. Trova entusiasmante questo pezzo di Puglia che
conosce, la trova ospitale e bellissima, soprattutto guardando il mare
dall’alto del giardino del Teatro di Ruvo nella cui foresteria è anche ospite
per alcuni giorni nei quali ha incontrato i ragazzi del Liceo Coreutico di
Bisceglie. “E’ un luogo bellissimo, questo” dice, “sarebbe un ambiente
fantastico per una scuola estiva internazionale per giovani artisti, basterebbe
potare un po’ d’erba e riallestire gli interni, molto semplicemente: ho chiesto
agli operatori locali dei Teatri abitati e del Teatro Pubblico Pugliese di
pensarci, io sono pronta a collaborare”.
Poi entra decisamente nell’argomento che le sta a cuore:
questa Pupilla che nacque, appunto,
nel 1983, e che oggi rivive, attualissima come il pensiero-movimento-corpo che
la sorregge. Pensiero, movimento e corpo di donna, innanzi tutto, possibili
anche in base a relazioni molto caratterizzate dalla presenza femminile che si
sono attivate per darle vita. A cominciare da quella che la sorregge oggi: il
progetto RIC.CI (Reconstruction Italian Contemporary Coreography) ideato e
diretto dalla critica di danza Marinella Guatterini, che è dedicato alla
memoria degli ultimi decenni della danza contemporanea in Italia attraverso
otto lavori di otto artisti. “Il modello di relazione con persone come la
direttrice della scuola di danza da cui provengono le tre ballerine di oggi, la
tecnica delle luci, la restauratrice dei costumi, originariamente creati da me
stessa”, dice Magli, “vorrei che fosse un modello per le giovani, soprattutto
in questo spettacolo in cui le ispirazioni visuali sono molteplici, le musiche
e le parole (da Debussy a Fauré, da Pascoli a Saba) anche, ma in cui sono in
scena le possibili vite di una donna che pensa e racconta se stessa”.
In Pupilla il
corpo in scena fa vivere delle immagini: si parte da quella della Contessa de
Beaumont, fotografata da Man Ray, vestita per una di quelle feste che lei e suo
marito organizzavano spesso sul finire degli anni ’20. “La festa era
un’occasione culturale, in quel tempo” dice Magli. “I luoghi del lusso e del
divertimento erano frequentati da artisti, poeti, pensatori, erano tutto il
contrario del lusso festaiolo pacchiano di oggi”. Nelle mani la contessa ha due
marionette in forma di teste: la danzatrice replica questa figura con due
maschere di donna che poco a poco si trasformano in burattini e poi in bambole,
“effigi dell’umano”, dice Magli. E’ la
prima scena, quella della “signora”, “una signora un po’ stanca che torna a
casa e comincia a pensare a quello che è e che è stata”. Così prende vita la
seconda immagine, “le bambine”, che “rimanda al mondo dell’infanzia con i
giochi teneri e le cantilene, ma anche con i suoi misteri e le sue
perversioni”. Le turbe adolescenziali fanno poi spazio al terzo “quadro”, la
“femme moderne”, ispirata alla foto di Max Ernst La preparation de la colle d’os (1921), di cui è protagonista il
corpo meccanico, il corpo-macchina, percorso da tubi e cavi di alimentazione
“come quello di un robot o di una persona in coma la cui vita è alimentata da
macchine e cannule”. Torna nella quarta scena la bambola, che dà vita alla foto
Die Puppe del surrealista Hans
Bellmer (1933), in cui la donna è ritratta come una bambola fatta di pezzi di
corpo, arti, seni, piedi fasciati in calzini corti e ballerine-bebé. E’ una
“bambola snodabile” che nella performance di Magli esce dall’immaginario
maschile di donna smontabile e rimontabile come la vuole il suo “creatore”, e
si mette a vivere di vita propria, mentre intorno a lei gli uomini non sono che
omini Michelin, “proprio quelli dei camionisti”, dice l’artista. Infine, la
quinta scena è il “girotondo”, la danza che fa vivere il mondo. Ora la vita
appare in tutte le sue forme, si rompe alla fine lo schermo (nel 1983 era lo
specchio) che ci rimanda un’immagine piatta e monotona, mentre l’arte e
l’immaginario ci offrono gaiamente la molteplicità del vivere.
Il senso di un'esperienza: nacque con "Alfabeta"
Sono stati fondamentali nella formazione della cultura
italiana di fine Novecento i quasi dieci anni di vita (1979-1988) della rivista
“Alfabeta”, che rappresentò forse l’ultima esperienza di “avanguardia”
novecentesca, e che ebbe nella sua redazione figure di scrittori, filosofi,
semiologi, artisti, come Nanni Balestrini, Umberto Eco, Maria Corti, Francesco
Leonetti, Gianni Sassi, Omar Calabrese, Carlo Formenti. Quest’ultimo ha poi
fondato nel 2010 “Alfabeta 2”, rivista che però, nel nuovo secolo, contempla
ovviamente prospettive e tagli teorici piuttosto distanti dall’ “Alfabeta”
originaria. Nei tanto vituperati anni
’80 presero invece vita intorno a quella rivista teorie umanistiche e pratiche
artistiche che si incrociavano in modo innovativo, che generarono dibattiti impensabili
solo fino a qualche anno prima in Italia e formarono così parte della
generazione che non si sentiva più a suo agio nella rigidità ideologica degli
anni ‘70. Fu in quel clima culturale che nacque, originale e sofisticata,
l’esperienza di danza di Valeria Magli, che alla rivista collaborò e di cui su
“Alfabeta” scrissero molti autori. (P.C.)
Box 2 Magli
L’abito è essenziale nel lavoro di Valeria Magli. Lei stessa
disegna i costumi di scena, prendendo ispirazione dalle immagini che intende
“far parlare”, dai concetti che vuole esprimere, dalle figure dell’immaginario.
Ai suoi abiti si è recentemente ispirata una stilista russa, Svetlana Bezva,
nella sua collezione 2013-14, che rielaborano le immagini della bambina e della
bambola “traducendole” in forme e colori.
mercoledì 30 aprile 2014
Lezione di Louise Wallenberg
Dipartimento di Lettere Lingue Arti
Dipartimento di Lettere Lingue Arti.
Italianistica
e culture comparate
Martedì 6 Maggio, ore 10.30 - Via Garruba 6 –
Laboratorio 1 (I piano)
Louise Wallenberg
(Università
di Stoccolma)
Terrà una lezione su:
Anonymity, exchangeability and stardom:
from mannequins, to
models, to supermodels - and back again
martedì 8 aprile 2014
mercoledì 19 marzo 2014
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