martedì 2 dicembre 2014

Ancora su Mina e la TV italiana dei '60




In occasione del Seminario "60, ma li dimostra? Tv, linguaggi, società", la presentazione dell'intervento su: 

"Mina e la RAI degli anni '60"

Clicca qui per aprire la presentazione

martedì 18 novembre 2014

25 novembre - Seminario con Louise Wallenberg

Abstract: Throughout history, wild and domestic animals have had several functions in various forms of representation: they have occupied central positions in literary works (as anthropomorphised animal), they have been used in painted and photographed portraiture, in film and theatre, and in fashion imagery. Animals – alive or dead (and if dead, then most often in parts) – have been used to indicate social, economic and gendered status, and they have been used as allegories communicating political and social meanings. In addition, they have often been used as pure objects of fashion conveying notions of gender, exoticism, eroticism and danger.
The animal trope, then, is perpetuated across the entire terrain of representational media, and their relation is formed by a pendular desire moving between love and fear. While our wanting to become like an animal and our over-empowering love for them is portrayed as romantic, our fear of the animal, and of becoming animal, forms the truly horrific in many narratives. In the first scenario, it is a matter of becoming one with the loved Other. In the second, it is a panicking fear of becoming the Other, and in this becoming, losing one’s humanity and losing control.
This pendular desire between loving, longing and fear persists in fashion imagery too. Here, women models in particular are portrayed as being one with the animal. No matter their size and their wildness, the models emerge as half-animals themselves. While such representations are often/typically misogynist and sexist, in this article I seek to re-read the juxtaposition of women models and the animal in fashion imagery through the lens of Gilles Deleuze and Felix Guattari’s (1980/1996) notion of ‘becoming-animal’. Through this prism, I argue that fashion imagery of ‘animal’ women can be reread as a powerful representation of female inclusion and freedom.


Key words: ‘becoming-animal’, fashion imagery, Deleuze & Guattari, feminist practice

24 novembre: seminario con Salvatore Zingale


lunedì 22 settembre 2014

Ma quanto è maschio il tuo décolleté!


(La Gazzetta del Mezzogiorno del 14/9/2014)
Venti d’autunno, e gli scolli degli abiti delle donne si chiudono sotto sciarpe leggere e freschi baveri. Restii all’impresa di nascondere e costringere il collo si scoprono invece sorprendentemente  gli uomini, che cercano in ogni modo di sottrarsi al destino dell’uniforme quotidiana che li vorrebbe incravattati e accollati in ogni stagione. E la moda li aiuta, soprattutto quella moda che vive non tanto come ultima novità, quanto come storia già vissuta e citazione anche inconsapevole di immagini già viste e fatte rivivere nell’attualità.
E’ certamente vero che dire “décolleté” significa riferirsi per antonomasia a quello femminile, sia se lo si intenda come parte del corpo, sia se si usi questo termine per definire il modo in cui un indumento termina intorno al collo. Eppure il décolleté rappresenta anche per gli uomini un elemento complesso e fortemente valorizzato, sul piano simbolico come su quello pratico. Basti pensare proprio ai modi diversi in cui si manifesta la forma più comune e classica di scollo maschile: il nodo della cravatta. Si va dal “nodone” che quasi strangola il pomo d’Adamo intorno alla camicia che più abbottonata non si può, a forme più “rilassate” di cravatte sottili – ritornate oggi nuovamente in auge – col nodo piccolo, fino alla possibilità che questo nodo si allarghi mentre il primo bottone del colletto della camicia sguscia via dall’asola lasciando libera la base del collo.
 Ed è proprio lì, alla base del collo, che hanno inizio le varietà dei décolleté maschili, che, sebbene gli uomini tendano a sottovalutarlo, non hanno nulla da invidiare a quelli femminili in quanto a componenti erotiche, estetiche e simboliche. Ecco allora che la camicia sbottonata già comincia a declinare queste componenti possibili, comprese certo quelle più discutibili se non raccapriccianti, se si pensa, per chi se li ricorda, a certi décolleté maschili anni ’70: camicia stretta sui fianchi e aperta sotto la gola, catena d’oro con patacca o croce massiccia incuneata tra i peli del petto. Divisa e simbolo di boss e magnaccia più o meno dichiarati, ma anche – ahimé! – indumento preferito, e non solo a quel tempo, da personaggi illustri del mondo dello spettacolo. Ne fu emblema Johnny Hallyday, rock star francese sin dai primi anni ‘60, che dello scollo con catena fece la sua “divisa”.
Vittorio Gasmann in Il sorpasso (1963) introdusse la camicia bianca appena sbottonata sul petto, tipica della moda di quegli anni, che caratterizzava però nel film efficacemente il suo personaggio un po’ cialtrone, un po’ eterno bambino, emblematico della società italiana del tempo. Interessante notare come possa, quella camicia aperta e sbottonata, essere anche considerata l’antesignana dell’uso casual di candide camicie appena sbottonate, dette qualche anno fa “alla Obama”, e più di recente in Italia “alla Renzi”, che nella comunicazione politica intendono dare un senso di vicinanza, familiarità, parola diretta, a contrasto con l’impomatata e ingessata immagine dell’uomo politico più tradizionale e conservatore.

Slacciarsi la cravatta e sbottonarsi in profondità la camicia ha però per l’uomo un’incognita: andando giù lungo il petto al di sotto della barba, incolta o rasata che sia, si apre una foresta di peli o una distesa setosa di pelle? Fino alla fine dello scorso secolo il petto villoso maschile non è stato un problema: gli uomini sembravano tutto sommato indifferenti ad esibire i loro peli, anche quelli talmente folti da non avere soluzione di continuità con la barba. Invece, da una ventina d’anni molti uomini sono stati colpiti dall’ossessione del décolleté glabro, e hanno preso a depilarsi non necessariamente per ragioni pratiche, come capita ad alcuni sportivi, ma per ragioni estetiche in tutto simili a quelle per cui le donne si depilano le gambe, le sopracciglia o le ascelle. Una pelle glabra, liscia, lucida, sembra infatti assumere valorizzazioni positive, legate a concetti quali giovinezza, tensione muscolare, seduzione, femminilità. La cultura visuale rappresentata dal cinema e dalle sue star conosce immagini esemplari in questo senso, sin dalle origini. Rodolfo Valentino non lesinava scollature nei suoi film, come Lo sceicco (1921) nel quale indossa il costume “arabo” aperto sul petto setoso, o Il giovane raja (1922) dove compare con il busto attraversato da abiti-gioiello di ispirazione orientalista creati dalla sua seconda moglie Natacha Rambova.
Un habitué del décolleté, e spesso del petto nudo totale, nel cinema è stato Paul Newman: è con indosso solo un asciugamano stretto sui fianchi che fugge da una camera d’albergo nel film Intrigo a Stoccolma (1963); è con la camicia bianca aperta fino alla vita che si fa visitare da una dottoressa in Il sipario strappato (1966), uno dei pochi film di Hitchcock in cui è il protagonista maschile e non quello femminile ad essere costruito come oggetto sessuale. La coppia Paul Newman – Robert Redford si presenta in La stangata (1973) con due straordinari décolleté: canottiera sotto salopette jeans per il primo, glabro; camicia sbottonata e bretelle per il secondo, invece villoso. Intramontabili. E, parlando di Redford, è impossibile tacere della sua camicia celeste, eterna, dai Tre giorni del condor (1975) a La regola del silenzio (2012), portata con il primo bottone aperto.

Altro protagonista del décolleté nel cinema è stato Marlon Brando, in molteplici versioni: la T-shirt con scollo tondeggiante del suo personaggio di Stanley Kowalski in Un tram che si chiama desiderio (1951), la cravatta stretta al collo sul petto nudo di Viva Zapata (1952) in cui interpreta il grande rivoluzionario messicano, la toga che copre solo una parte del tronco lasciando il petto scoperto nel film Giulio Cesare (1953) in cui è Marco Antonio. Il nudo integrale di Brando-Paul in Ultimo tango a Parigi (1972) risulta a confronto del tutto irrilevante: meglio la sua maglietta bianca intima a maniche corte che indossa nello stesso “scandaloso” film.
Questi modelli classici danno continua ispirazione alle mode contemporanee, che moltiplicano sia sulle passerelle che per le strade le forme possibili del décolleté maschile: maglie con scollature a V, ovali, arrotondate, quasi strappate sul petto, che alludono a Valentino o a Newman; T-shirt che sembrano magliette intime proprio come quelle di Kowalski e di Paul; modi di slacciare la camicia che seguono le orme di Redford. La tornitura dei muscoli dà a volte, in certe fotografie di moda, o su certi modelli quotidiani che si incontrano per strada, l’idea di un décolleté maschile molto somigliante al solco di un seno femminile. Si evoca così quella bisessualità probabilmente intrinseca in ciascuno di noi, quel confine spesso indistinto tra i generi su cui la moda gioca alimentando la libertà e la molteplicità dell’immaginario.




domenica 7 settembre 2014

Programma di Sociologia dei processi culturali e comunicativi - Lingue

Programma di Linguistica informatica 2014-15

Sociologia dei processi culturali e comunicativi 2014-15 - Taranto

Programma Linguistica generale 2014-15

Università degli Studi di Bari
Dipartimento di Lettere, Lingue Arti. Italianistica e Letterature Comparate
  Corso di laurea L11 - Culture delle Lingue moderne e del turismo

Crediti attribuiti all’insegnamento:
·       curriculum Lingue e culture moderne, I anno: 8 CFU
·       curriculum Lingue e culture moderne, Lingue moderne per il turismo, II anno: 7 CFU

Semestre nel quale è svolto l’insegnamento: I 

   - Obiettivi del corso: Gli/le studenti dovranno essere in grado di comprendere la dimensione sociale del linguaggio.

 – Contenuti del corso: Il corso analizzerà alcuni aspetti della linguistica contemporanea, approfondendo in particolare il ruolo sociale del linguaggio. Verranno sviluppati i seguenti argomenti: nome proprio e brand, nuovi media e comunicazione, il sistema della moda.

- Organizzazione del corso: lezioni, seminari, esercitazioni.

– Bibliografia essenziale per lo studio della disciplina:
  • Patrizia Calefato, Che nome sei?, Roma, Meltemi, 2006.  Il libro risulta non disponibile e/o esaurito. Si rende pertanto necessaria per ragioni didattiche la sua diffusione in formato digitale. Il volume è scaricabile a questo link.
  • Roland Barthes, Il senso della moda, Torino, Einaudi, 2006.
  • Augusto Ponzio,  Il linguaggio e le lingue, Milano, Mimesis, 2013.


– Modalità di svolgimento dell’esame finale: l’esame finale viene svolto con un colloquio orale che riguarda i temi inerenti il corso. 

martedì 5 agosto 2014

Altro che balconi, l’estate è un décolleté


di Patrizia Calefato

(La Gazzetta del Mezzogiorno del 20/7/2014)

Spogliarsi dei colli, delle sciarpe, dei colletti e dei foulard dell’inverno, dare alla pelle tra il mento e il torace la possibilità di respirare libera e di farsi attraversare dai raggi del sole anche quando si cammina per strada di giorno. La sera, invece, farle assaporare la brezza, e insieme dare al proprio stile un tocco di eleganza. Parliamo di scolli, ovvero dei vari modi in cui le donne hanno usato e usano liberarsi dei vincoli di stoffa, merletto, pelle o lana che sia, che occultano il collo, liberando invece, complice la moda, la parte che sta esattamente tra il collo e il seno, detta in francese non tradotto décolleté.
Se il décolleté sia la parte del corpo o il modo in cui essa viene “incorniciata” dalla scollatura, è questione ambigua. Nell’uso comune della lingua, décolleté vuol dire infatti entrambe le cose: cioè sia, letteralmente, la scollatura dell’abito, sia la parte alta del petto. Detta così, quest’ultima sembra un po’ un’espressione da usare più dal pollivendolo che in boutique, ma al complimento “Che bel décolleté!” difficilmente si resta indifferenti. Potremmo definirla una zona di confine tra i segni del volto, votati a significare la riconoscibilità e l’espressività della persona, e il seno, parte direttamente legata alla dimensione erotica e carnale della corporeità femminile. C’è poi anche un uso esteso della parola décolleté, che scivola dal petto ai piedi per indicare quel genere di scarpe che scoprono il collo, appunto, del piede. Ma restiamo qui a parlare di petti e colli propriamente detti.
L’estate e la moda sono artefici dei passaggi anche repentini dalle accollate costrizioni di colli dolcevita e lupetti alle aperture più fantasiose del décolleté, una zona del corpo che le donne, in varie culture ed epoche, hanno avuto la possibilità di scoprire e decorare con molta maggiore libertà e fantasia degli uomini, fortunate almeno in questo. Non analoga sorte è toccata al décolleté maschile, dotato di una poetica del rivestimento e dell’ornamento forse meno culturalmente celebrata di quella femminile, ma sicuramente altrettanto interessante nell’immaginario sociale. Ma andiamo con ordine.


E partiamo dalle tre “ultime trovate” che l’estate in corso dedica agli scolli femminili, ultime trovate per modo di dire, in quanto si tratta di quei ricorsi storici frequenti nella moda, quel sistema sociale che si caratterizza proprio per i “balzi di tigre” che compie all’indietro nel tempo per poter vivere nel presente, come diceva il filosofo Walter Benjamin. Spesso le parole della moda utilizzano metafore come nei tre casi che rappresentano le tre “trovate” in questione dell’estate 2014: lo scollo a barca, quello all’americana e quello a V. La sagoma arrotondata e insieme affusolata di un natante è quella evocata dalle scollature definite appunto “a barca” che incorniciano la base del collo, non lasciando molto di scoperto, se non i due pezzi di pelle che vanno verso le spalle. Il collo a barca fa molto brava ragazza e si accorda in modo perfetto con il revival del new look – corpetti striminziti e gonne ampie al ginocchio – che Christian Dior inventò sul finire degli anni ’50, e che torna ancora e ancora fino ai nostri giorni. Nel cinema classico, lo porta nel film Arianna (1957) Audrey Hepburn, quando va al Ritz, il celebre hotel di Place Vendôme a Parigi, a trovare il maturo donnaiolo Gary Cooper che crolla però come un innamorato imberbe e per sempre fedele di fronte alla giovane Arianna col suo vestitino fantasia e il suo lungo collo incorniciato da una immaginaria barchetta.
 Lo scollo all’americana – che viene abbottonato dietro la nuca e lascia libere le scapole - è stato invece riesumato di recente forse ispirandosi alla accurata ricostruzione del guardaroba di Grace Kelly fatta nel recente film Grace of Monaco (2014) a lei dedicato interpretato da Nicole Kidman. Questo genere di scollatura non appartiene però al periodo in cui Kelly fu principessa di Monaco. L’ispirazione è presa invece dalla scena di un altro film, Caccia al ladro (1955) di Alfred Hitchcock, in cui lei lo indossa a suggello sensualissimo di un eccentrico completo da mare bianco e nero con tanto di cappello a falde larghe, che fa sobbalzare per la sua estrosità perfino il compunto Cary Grant. Che lo scollo si chiami “all’americana" nel lessico italiano della moda si deve probabilmente al fatto che esso ebbe molta popolarità in USA sin dagli anni ’40 del Novecento: non a caso il personaggio interpretato da Grace Kelly nel film ambientato in Costa Azzurra è proprio quello di un’americana in vacanza. Oggi lo scollo all’americana impreziosisce soprattutto casacche squadrate su pantaloni larghi e morbidi, un insieme che cita esplicitamente quell’abito cinematografico dovuto all’opera della grande costumista di Hollywood Edith Head.

Il terzo scollo della nostra estate 2014 è quello detto a V, vertiginoso come quelli dei vestiti che indossa l’attrice Amy Adams nel film dell’ultima stagione American Hustle (2013). Citazione esplicita direttamente presa dagli anni ’70 nel film, lo scollo a V richiede seni piccoli perché vi si insinua profondamente in mezzo rifiutando l’ostacolo del reggiseno ed evocando i tempi in cui se ne faceva tranquillamente a meno senza ossessioni di chirurgia estetica e obblighi di quarte misure. La V del nome ci ricorda, come diceva Roland Barthes, che la moda inscrive il corpo in “uno spazio sistematico di segni”, dove anche la lettera dell’alfabeto può diventare principio di metafora e di racconto.
Per continuare con le scollature a ispirazione cinematografica, e andando verso le immagini intramontabili di questo scenario tra moda e cultura visuale, non si può non ricordare quella, strepitosa, a balconcino di Sophia Loren che fa lo striptease in camera da letto per Marcello Mastroianni in Ieri, oggi, domani (1963). In questo caso, la metafora del “balconcino” richiama sia il seno che si appoggia sullo scollo, come se stesse al balcone, sia l’immaginario del balcone come luogo da cui si guarda una scena, chiamando così in causa l’aspetto visivo, finanche voyeuristico, che la moda come forma di comunicazione implica. In questa stessa logica si pone la scollatura fasciata di Marilyn Monroe che, in Gli uomini preferiscono le bionde (1953), balla e danza inneggiando ai diamanti preferiti dalle ragazze. In un’ottica di décolleté romantico vive nel nostro immaginario lo scollo a cuore sul vestito scarlatto che Julia Roberts indossa una sera a teatro con Richard Gere nel film Pretty Woman (1990).
Come in ogni segno che si rispetti, il décolleté conosce anche il suo opposto, quello in cui è la schiena, e non il petto, ad essere scoperta, come accade a Kim Novak, nella scena del ristorante nel film La donna che visse due volte (1958). Scollo posteriore anche per Faye Dunaway nel film Il caso Thomas Crown (1968), nella scena carica di erotismo in cui gioca a scacchi con Steve McQueen. In questo caso, l’abito morbido di Dunaway è chiuso all’americana sul davanti lasciando completamente scoperta la schiena fino alla vita sul didietro.
 Basta lo scollo dell’abito a fare un décolleté? A volte sì, a volte occorre insistere con i segni, impreziosendo con una collana la zona nuda. Tra gioielli e bijou la scelta è aperta.

(continua, nel prossimo articolo décolleté uomini)

lunedì 30 giugno 2014

Sotto gli occhiali niente, ma anche tutto il fascino

(Da "La Gazzetta del Mezzogiorno del 29/6/2014)

Chi l’ha detto che d’estate i corpi tendono solo a scoprirsi? Certo, fa caldo, ci si alleggerisce, si ripongono negli armadi invernali calze, maglioni, guanti e giacche; le braccia, le gambe e i décolleté si liberano di maniche, pantaloni lunghi e colli a prova di mal di gola. E’ alla testa però che succede qualcosa di strano e curiosamente inverso rispetto alla generale tendenza. La testa d’estate infatti non smette di ricoprirsi: con i cappelli, saggi riparatori dai raggi solari, ma soprattutto con gli occhiali da sole, a proposito dei quali, più che di testa in generale, parliamo di volto in particolare. Tratto distintivo, e all’estero spesso stereotipato, dell’“italianità”, certamente gli occhiali da sole si indossano sia d’estate che d’inverno, soprattutto in quei luoghi del Bel Paese dove anche a gennaio può esserci una luce naturale intensa, Sud o alta montagna che sia. E’ però specialmente nella bella stagione che gli occhiali da sole svolgono a pieno la loro funzione primaria di proteggere i nostri occhi dai raggi ultravioletti, minaccia seria per la vista.
 Non è da molto tempo nella storia dell’umanità che la protezione degli occhi dal sole viene affidata alle lenti. L’uso di cristalli e pietre preziose smerigliate per ingrandire le immagini è testimoniata nell’antichità latina, mentre le prime lenti da vista compaiono intorno al Tredicesimo secolo. Ma l’oscuramento delle lenti allo scopo di temperare la luce naturale ha una storia molto più recente, che risale appena alla fine dell’Ottocento, con i primi tentativi, e poi decisamente al Novecento. Precedentemente, solo i popoli dei ghiacci, come gli Inuit, avevano usato pezzi di legno o di osso sugli occhi che lasciavano la possibilità di vedere attraverso un piccolo buco al centro, allo scopo di sopportare la luce micidiale riflessa delle loro latitudini. Presso altre società si ricorreva invece ai tessuti avvolti intorno al viso, ai veli, ai cappelli a falde larghe e con visiera, agli stessi capelli, quando tutto mancava per proteggersi.
Le “protesi” scure fatte di vetro e tenute ferme dietro le orecchie in forma di occhiali si diffusero in modo crescente a partire dall’uso che intorno agli anni ’30 del Novecento ne fecero per primi gli aviatori e i piloti automobilistici.  La moda è stata spesso debitrice sia della guerra che dello sport: moltissimi usi, segni ed oggetti di moda, come nel caso degli occhiali da sole, si sono ispirati alle divise militari, da un lato, e alle tenute sportive, dall’altro. Tanto da far pensare che una delle funzioni delle guerre sia stata quella di compensare la distruzione di vite e territori attraverso la conservazione simbolica o fisica di indumenti e accessori legati alle uniformi. L’ispirazione sportiva si spiega invece nel fatto che, proprio a partire dal primo Novecento, lo sport diviene una forma di intrattenimento, spesso spettacolare, destinato alle masse, esattamente come la moda, che nella modernità non è più una prerogativa aristocratica e cortigiana, ma una forma di socialità quotidiana.

Nel 1937 Edwin Land fondò la Polaroid, che cominciò a produrre in serie occhiali da sole con il filtro polarizzante inventato proprio da Land. Protezione degli occhi e glamour divennero a questo punto un binomio inscindibile, dal momento che la moda, il cinema e la pubblicità iniziarono a diffondere nell’immaginario sociale l’idea di mistero, fascino, forse anche malìa, trasmessa da uno sguardo che si nasconda sotto oscure lenti. I divi di Hollywood li usarono come maschera per giocare al nascondimento/riconoscimento. Le pagine delle riviste di moda dell’epoca classica di “Vogue” e “Harpers’ Bazaar” – tra i ’50 e i ’60 – si riempirono nei mesi estivi di modelle occhialute. Fu merito degli occhiali da sole di Audrey Hepburn in Colazione da Tiffany (1961), gli intramontabili Wayfarer, la valorizzazione positiva della donna con gli occhiali, per lo meno con gli occhiali da sole. Proprio il cinema hollywoodiano aveva invece spesso enfatizzato negativamente i personaggi femminili dotati di lenti da vista: maestro di questa operazione fu Alfred Hitchcock, che per esempio in Vertigo (La donna che visse due volte, 1958) contrappose simbolicamente la bellissima ma colpevole Kim Novack, di cui si innamora il protagonista James Stewart, al personaggio della disegnatrice di moda interpretato da Barbara Bel Geddes, che però porta ahimé gli occhiali e che pertanto può essere per lui nulla più che una “fraterna” amica. Certo, Marilyn Monroe aveva “giocato” con il fascino degli occhiali da vista nel film Come sposare un milionario (1953), dove interpretava la parte di una modella terribilmente miope, ma lei era un’eccezione, appunto.
Mentre gli occhiali da vista segnalano comunque simbolicamente una condizione di handicap del corpo, sia pure lieve e comune alla maggior parte degli esseri umani, gli occhiali da sole sembrano invece esprimere una condizione di potere del corpo: non si sa cosa lo sguardo possa nascondere, potenzialmente tutto o niente, in ogni caso qualcosa che si sottrae all’interpretazione univoca da parte dell’altro. Intendiamoci: ragioniamo su segni i cui significati si legano a sfumature, e che possono spesso capovolgersi nel loro contrario. Che senso dare, per esempio,  all’immagine del musicista jazz Miles Davis in quella copertina storica del disco ‘Round Midnight del 1957, in cui gli occhiali da sole contribuiscono in modo determinante a rendere la sua espressione distaccata e calma, con un po’ di malinconia, e a farne l’emblema cool del suo genere musicale? Da quella versione cool sono derivati, nel cinema, gli occhiali celeberrimi dei Blues Brothers (1980), quelli delle Jene di Quentin Tarantino (1992), quelli dei Men in Black (1997 e 2002). Coronamento cinematografico, il techno-cool di Neo, protagonista della saga di Matrix (1999-2003).
Gli occhiali da sole sono un capo di moda verso cui genere maschile e genere femminile sembrano ugualmente molto interessati, insomma. Prova ne siano, per gli uomini, altri pezzi storici, che dal cinema hanno segnato la moda, come i Persol di Marcello Mastroianni in Divorzio all’italiana (1962), di Steve McQueen nel film icona di stile Il caso Thomas Crown (1968), di Daniel Craig che in Skyfall (2012) prosegue la lunga tradizione degli 007 occhialuti.  
Qualche giorno fa il maggiore gruppo mondiale degli occhiali, Luxottica, ha commissionato al più celebre blogger fotografico di moda, Scott Schuman autore del Sartorialist (www.sartorialist.com), il progetto Faces by the Sartorialist (facce da Sartorialist) destinato a ricercare per le strade delle città del mondo in cui già il blogger lavora, da New York a Firenze a Stoccolma, tutte le facce con gli occhiali che possano rappresentare un’originale eleganza di strada. Ce ne saranno certamente di ogni tipo: ma tra gli occhialoni chiari da nerd e le lenti scure più cool sarà una bella competizione.
La stessa Luxottica ha da poco anche siglato un accordo con Google per realizzare il design e l’innovazione di una nuova generazione dei Google Glass, gli occhiali che rendono accessibile e indossabile la “realtà aumentata”. Una realtà che ha certamente delle componenti oscure sulla sua superficie, o su quella degli occhiali che ce la sveleranno.




Box
Non è da molto tempo nella storia dell’umanità che la protezione degli occhi dal sole viene affidata alle lenti. L’uso di cristalli e pietre smerigliate per ingrandire le immagini è testimoniata nell’antichità latina, mentre le prime lenti da vista compaiono intorno al Tredicesimo secolo. Ma l’oscuramento delle lenti allo scopo di temperare la luce naturale ha una storia molto più recente che risale agli anni ’20 del Novecento. Solo i popoli dei ghiacci, come gli Inuit, per sopportare la luce micidiale riflessa delle loro latitudini, usavano sin dall’antichità coprirsi gli occhi con pezzi di legno o di osso che lasciavano la possibilità di vedere attraverso un piccolo buco al centro. Presso altre società si ricorreva invece per proteggersi ai tessuti avvolti intorno al viso, ai veli, ai cappelli a falde larghe e con visiera, agli stessi capelli, quando tutto mancava.


martedì 6 maggio 2014

Se il corpo in scena fa vivere le immagini: "Pupilla" di Valeria Magli

“E’ la tua pittura una forma di danza, o Valeria col piede pensante”, scrisse nel 1983 Francesco Leonetti a Valeria Magli. Bolognese, laureata in Filosofia con Luciano Anceschi, Magli propone un genere unico in cui il corpo è al centro, in cui ogni muscolo e ogni nervo è pensiero, concetto, elemento di connessione.
Incontro Valeria Magli a Ruvo di Puglia, presso il teatro Comunale, dove sta ultimando la preparazione della prima nazionale (Bisceglie, Teatro Garibaldi, 3 maggio) di Pupilla 1983-2014. Trentuno anni che riannodano i pensieri e i movimenti: nello spettacolo del 1983 era lei sola in scena, oggi sono tre giovani ballerine della Dance-Haus Company di Milano a interpretare le molteplici figure attraverso cui vive la protagonista di Pupilla: Chiara Monteverde, Armida Pieretti e Susan Vettori. Magli torna in Puglia dopo 14 anni: era stata l’ultima volta a Bari, presentando una performance nell’ambito dell’iniziativa Tra il dire e il fare dedicata al pensiero e alla creatività femminili, e prima ancora aveva partecipato, agli inizi degli anni ’90, a un’altra iniziativa sullo stesso tema presso Santa Scolastica. Trova entusiasmante questo pezzo di Puglia che conosce, la trova ospitale e bellissima, soprattutto guardando il mare dall’alto del giardino del Teatro di Ruvo nella cui foresteria è anche ospite per alcuni giorni nei quali ha incontrato i ragazzi del Liceo Coreutico di Bisceglie. “E’ un luogo bellissimo, questo” dice, “sarebbe un ambiente fantastico per una scuola estiva internazionale per giovani artisti, basterebbe potare un po’ d’erba e riallestire gli interni, molto semplicemente: ho chiesto agli operatori locali dei Teatri abitati e del Teatro Pubblico Pugliese di pensarci, io sono pronta a collaborare”.

Poi entra decisamente nell’argomento che le sta a cuore: questa Pupilla che nacque, appunto, nel 1983, e che oggi rivive, attualissima come il pensiero-movimento-corpo che la sorregge. Pensiero, movimento e corpo di donna, innanzi tutto, possibili anche in base a relazioni molto caratterizzate dalla presenza femminile che si sono attivate per darle vita. A cominciare da quella che la sorregge oggi: il progetto RIC.CI (Reconstruction Italian Contemporary Coreography) ideato e diretto dalla critica di danza Marinella Guatterini, che è dedicato alla memoria degli ultimi decenni della danza contemporanea in Italia attraverso otto lavori di otto artisti. “Il modello di relazione con persone come la direttrice della scuola di danza da cui provengono le tre ballerine di oggi, la tecnica delle luci, la restauratrice dei costumi, originariamente creati da me stessa”, dice Magli, “vorrei che fosse un modello per le giovani, soprattutto in questo spettacolo in cui le ispirazioni visuali sono molteplici, le musiche e le parole (da Debussy a Fauré, da Pascoli a Saba) anche, ma in cui sono in scena le possibili vite di una donna che pensa e racconta se stessa”. 
In Pupilla il corpo in scena fa vivere delle immagini: si parte da quella della Contessa de Beaumont, fotografata da Man Ray, vestita per una di quelle feste che lei e suo marito organizzavano spesso sul finire degli anni ’20. “La festa era un’occasione culturale, in quel tempo” dice Magli. “I luoghi del lusso e del divertimento erano frequentati da artisti, poeti, pensatori, erano tutto il contrario del lusso festaiolo pacchiano di oggi”. Nelle mani la contessa ha due marionette in forma di teste: la danzatrice replica questa figura con due maschere di donna che poco a poco si trasformano in burattini e poi in bambole, “effigi dell’umano”, dice Magli.  E’ la prima scena, quella della “signora”, “una signora un po’ stanca che torna a casa e comincia a pensare a quello che è e che è stata”. Così prende vita la seconda immagine, “le bambine”, che “rimanda al mondo dell’infanzia con i giochi teneri e le cantilene, ma anche con i suoi misteri e le sue perversioni”. Le turbe adolescenziali fanno poi spazio al terzo “quadro”, la “femme moderne”, ispirata alla foto di Max Ernst La preparation de la colle d’os (1921), di cui è protagonista il corpo meccanico, il corpo-macchina, percorso da tubi e cavi di alimentazione “come quello di un robot o di una persona in coma la cui vita è alimentata da macchine e cannule”. Torna nella quarta scena la bambola, che dà vita alla foto Die Puppe del surrealista Hans Bellmer (1933), in cui la donna è ritratta come una bambola fatta di pezzi di corpo, arti, seni, piedi fasciati in calzini corti e ballerine-bebé. E’ una “bambola snodabile” che nella performance di Magli esce dall’immaginario maschile di donna smontabile e rimontabile come la vuole il suo “creatore”, e si mette a vivere di vita propria, mentre intorno a lei gli uomini non sono che omini Michelin, “proprio quelli dei camionisti”, dice l’artista. Infine, la quinta scena è il “girotondo”, la danza che fa vivere il mondo. Ora la vita appare in tutte le sue forme, si rompe alla fine lo schermo (nel 1983 era lo specchio) che ci rimanda un’immagine piatta e monotona, mentre l’arte e l’immaginario ci offrono gaiamente la molteplicità del vivere.




 Il senso di un'esperienza: nacque con "Alfabeta"
Sono stati fondamentali nella formazione della cultura italiana di fine Novecento i quasi dieci anni di vita (1979-1988) della rivista “Alfabeta”, che rappresentò forse l’ultima esperienza di “avanguardia” novecentesca, e che ebbe nella sua redazione figure di scrittori, filosofi, semiologi, artisti, come Nanni Balestrini, Umberto Eco, Maria Corti, Francesco Leonetti, Gianni Sassi, Omar Calabrese, Carlo Formenti. Quest’ultimo ha poi fondato nel 2010 “Alfabeta 2”, rivista che però, nel nuovo secolo, contempla ovviamente prospettive e tagli teorici piuttosto distanti dall’ “Alfabeta” originaria.  Nei tanto vituperati anni ’80 presero invece vita intorno a quella rivista teorie umanistiche e pratiche artistiche che si incrociavano in modo innovativo, che generarono dibattiti impensabili solo fino a qualche anno prima in Italia e formarono così parte della generazione che non si sentiva più a suo agio nella rigidità ideologica degli anni ‘70. Fu in quel clima culturale che nacque, originale e sofisticata, l’esperienza di danza di Valeria Magli, che alla rivista collaborò e di cui su “Alfabeta” scrissero molti autori. (P.C.)

Box 2 Magli
L’abito è essenziale nel lavoro di Valeria Magli. Lei stessa disegna i costumi di scena, prendendo ispirazione dalle immagini che intende “far parlare”, dai concetti che vuole esprimere, dalle figure dell’immaginario. Ai suoi abiti si è recentemente ispirata una stilista russa, Svetlana Bezva, nella sua collezione 2013-14, che rielaborano le immagini della bambina e della bambola “traducendole” in forme e colori.


                                                                                                                                                                                        

mercoledì 30 aprile 2014

Lezione di Louise Wallenberg




Dipartimento di Lettere Lingue Arti
Dipartimento di Lettere Lingue Arti.
Italianistica e culture comparate

Martedì 6 Maggio, ore 10.30 - Via Garruba 6 – Laboratorio 1 (I piano)


Louise Wallenberg
(Università di Stoccolma)

Terrà una lezione su:

Anonymity, exchangeability and stardom:
from mannequins, to models, to supermodels - and back again

Argomenti

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