martedì 16 novembre 2010

La manomissione delle parole

    
facoltà di lingue e letterature straniere
Corso di Sociolinguistica

Lunedì 29 novembre - Ore 17.00 - Aula Carofiglio

Gianrico Carofiglio
Terrà una lezione sul suo ultimo libro
La manomissione delle parole
(Rizzoli)

Introduce: Patrizia Calefato

Windtalkers Trailer



Navajo Code Talkers: Sito Ufficiale

venerdì 5 novembre 2010

Vestiti di parole

pubblicato in "il manifesto" del 26/10/2010



APERTURA   |   di Patrizia Calefato

  • Vestiti DI PAROLE
    Prospettive d autore sugli stili dell abbigliamento dall Ottocento a oggi, in un saggio di Daniela Baroncini. Dall elogio dell artificio in Baudelaire alle sfide lanciate dalle avanguardie fino all Italian Style, le cui atmosfere filtrano nell ultimo romanzo di Letizia Muratori Sole senza nessuno
  • La moda è costitutivamente letteraria. Non tanto perché di essa «parla» la letteratura, ma perché le ragioni e le tensioni che la motivano sono della stessa stoffa di cui la letteratura è fatta. A cominciare da quella «funzione estetica» di cui parlò negli anni '30 del Novecento Pëtr Bogatyrëv, tra gli esponenti di spicco del Circolo di Praga, che individuò nell'abito (in particolare nel costume popolare della Slovacchia morava) una gerarchia di funzioni - pratica, magica, rituale ed estetica - delle quali quest'ultima si poneva come quella in realtà meno «funzionale». Simile in ciò a quella funzione poetica della comunicazione che Roman Jakobson, negli stessi anni e nello stesso contesto intellettuale di Bogatyrëv, individuava nel linguaggio. Qual è infatti il significato della moda, e più in generale dell'abito, delle decorazioni, dei rivestimenti del corpo, se non quello di «essere alla moda», di affermare un principio di piacere leggero, che dipende dal - ma allo stesso tempo costruisce il - gusto come senso comune. Ciclicamente questo principio muta il gusto, a volte anche forzandolo, ma sempre agisce nel campo di quella stessa «infunzionalità» dei segni che fonda alla base anche la letteratura. 
  • La «moda reale», come la chiamerebbe Barthes, contiene dunque un'eccedenza di senso simile all'eccedenza segnica letteraria. Certo, va anche considerato come molto spesso l'infunzionalità estetica si converta in una funzionalità sociale per cui la moda diviene un elemento di distinzione e di rappresentazione di status. La funzione sociale del lusso nella storia nasce proprio da questa inversione di senso: uno strascico più lungo nel Medioevo, una griffe eccelsa oggi, ed ecco che la bellezza sublime e insensata di un abito diviene segno di potere o ricchezza. La letteratura, fortunatamente per lei, difficilmente incorre in simili avventure; oggi poi le capita sempre più di rado di venire ostentata come status symbol.
    I ninnoli di MallarméOltre alla «moda reale» esiste però, come lo stesso Barthes ci insegna, la moda descritta, la moda scritta, vale a dire il linguaggio che concerne la moda e che su di essa si forgia. Un linguaggio che non sempre è, in senso stretto, «letterario», ma che attraverso la moda lo diventa. Proprio un saggio sistematico e ponderoso ad esempio, qual è il Sistema della Moda di Barthes, venne definito dal suo stesso autore un «progetto poetico», nel senso che si trattava, scrisse Barthes in un'intervista del 1967, di «una sorta di filosofia del nulla»: «All'inizio non c'è niente, l'abbigliamento di moda non esiste, è una cosa estremamente futile e senza importanza, alla fine c'è un oggetto nuovo che esiste, ed è l'analisi che lo ha costituito». Non esiste nulla se non la parola che nomina, potremmo dire parafrasando ancora Barthes: in questo senso la moda è un sistema esemplare per la letteratura, perché proprio come la parola che dice la moda lavora sul «nulla del mondo», così nella letteratura è a partire dal nulla che si creano universi, si fanno nascere e vivere personaggi, si realizzano concatenazioni di tempi e di luoghi, si coniano nuove parole, si forgiano stili. 
    Barthes cita in questo senso Mallarmé, che come direttore e redattore de «La Dernière Mode», operò su «una sorta di variazione, a suo modo appassionata, sul tema del vuoto, del nulla», su quanto egli chiamava «il ninnolo». Ed è allo stesso Mallarmé giornalista di moda che il recente libro di Daniela Baroncini La moda nella letteratura contemporanea (Bruno Mondadori, pp. 154, euro 16) dedica un intero e istruttivo capitolo dove lo scrittore francese viene definito inventore di «un connubio del tutto originale tra moda e poesia». Interessantissima, dunque, l'esperienza della rivista che ebbe vita nel 1874, nella quale Mallarmé si valse dell'opera di scrittori ed illustratori d'eccezione, e in cui egli stesso si moltiplicò in una miriade di pseudonimi maschili e femminili, sotto i quali firmava generi diversi di articoli. Le maschere d'autore di scritture di moda erano in Mallarmé qualcosa di più che semplici strategie finalizzate al pubblico di lettori e lettrici: divenivano invece travestimenti veri e propri omologhi ai travestimenti della moda, al «carnevalesco» che fonda alla base il meccanismo del vestirsi e rivestirsi dei corpi. 
    Futurismo e quotidianitàNel libro di Baroncini, il riferimento a Mallarmé apre la riflessione sul rapporto tra moda e letteratura, insieme ai riferimenti al dandismo ed estetismo ottocentesco e al concetto di «artificio» in Baudelaire. Tutti questi elementi sono certamente i pilastri fondamentali del connubio tra moda e modernità, o se vogliamo dire meglio, del manifestarsi della modernità sotto l'aspetto della moda, nella letteratura non meno che in altri ambiti. Moda e morte, per Leopardi; moda come elogio dell'artificio, per Baudelaire; dandismo come costruzione della naturalezza tramite l'artificio e la maschera. Tre questioni dalle quali nasce e si alimenta la moda nella società di massa e dalla cui prospettiva la moda mette alla prova allo stesso tempo la sua intrinseca letterarietà, da un lato, il canone letterario, dall'altro. 
    Di questa sfida al canone furono consapevoli le avanguardie artistiche novecentesche, in particolar modo i futuristi, come Baroncini sottolinea nel capitolo che apre la parte del suo libro dedicata all'idea dell'abito d'artista. Un concetto, questo, che ritroviamo in Proust, e che passa attraverso il liberty di Gozzano e Guglielminetti, l'eleganza di De Pisis e Savinio, il concetto di maschera di Pirandello, Bontempelli e Rosso di San Secondo. Nel futurismo e nelle avanguardie in particolare, però, la moda entrò in gioco in modo esemplare, e non solo perché fu alla moda che fecero esplicito riferimento le opere pittoriche di Balla e Depero, il Manifesto della moda femminile di Volt (1920) e Contro il lusso di Marinetti (1920), ma perché, soprattutto in alcune componenti del futurismo, la moda venne per la prima volta messa in rapporto con la quotidianità. Un rapporto paradossale, ma proprio per questo assolutamente «letterario» e profondamente attuale oggi.
    Tra letteratura e giornalismoSono da rilevare in questo senso soprattutto due aspetti: il primo, come nota Baroncini, riguarda l'invenzione, nel Manifesto di Volt, di abiti e accessori che utilizzano materiali quali tappi di sughero, copertine di vecchi libri, lische di pesce e conchiglie, quasi come in un'arte del riciclo e del vintage ante litteram. Aggiungerei poi un secondo aspetto, che riguarda direttamente il rapporto tra moda e scrittura non in una immaginaria prescrizione, come quella del Manifesto della moda, ma in concrete pratiche come ad esempio i celebri disegni di Depero, per le copertine di «Vogue» e «Vanity Fair». Efficace emblema di questo rapporto è anche, oltre il Futurismo propriamente detto, il Robe-poème di Sonia Delaunay, del 1923, un vestito che riportava su di sé i versi della poesia di Tristan Tzara Le ventilateur tourne dans le coeur, e che precorre le T-shirt scritte, le scritte e i logo sugli indumenti, tutta la letterarietà, insomma, che riveste oggi costantemente i corpi e che configura «alla lettera» il sistema contemporaneo della moda.
    L'ultima parte del libro di Baroncini è dedicato al dominio letterario della moda nella contemporaneità, una definizione temporale che giunge però solo alla metà del Novecento, pur spingendosi un po' più avanti con Pasolini e Arbasino, e che assume come oggetto privilegiato il contesto letterario italiano. Di particolare interesse e originalità sono le pagine dedicate alle scrittrici che coniugarono scrittura letteraria e scrittura giornalistica dedicando un sguardo privilegiato alla moda da un lato come oggetto di curiosità culturale, dall'altro quale ambito in cui misurare il potere della scrittura come vero potere femminile. In questo senso vanno interpretate, ad esempio, le prescrizioni di bon ton e le ironie sulle manie delle fashion victims degli anni '30 di una scrittrice e giornalista come Irene Brin, pseudonimo inventato da Leo Longanesi per Maria Vittoria Rossi, poi firmatasi anche come Contessa Clara. O le cronache di Gianna Manzini, intreccio «squisito tra moda e cultura alta», di alcuni anni successive a quelle della Brin e anch'esse declinate attraverso vari pseudonimi che l'autrice assunse. 
    Dalle sartorie alle passerelleIl clima culturale e letterario italiano di cui sono emblema queste due scrittrici può senz'altro dirsi precursore di quell'Italian Style che fiorì, dopo la cesura della Guerra mondiale, negli anni della ricostruzione e poi del boom. Con il concetto di Italian Style si intende un virtuoso intreccio di culture in cui la moda, tra gli anni '50 e '60 del Novecento, si coniugò a tutto campo al cinema, all'arte, alla letteratura, alla ricerca scientifica e tecnologica, alla gastronomia, al turismo e in cui si costruì un'idea di Italia come luogo della bellezza, del tempo libero, del piacere di vivere. Era certo una retorica che si insediava sulle grandi contraddizioni del neocapitalismo nascente, ma che si fondava comunque su una dimensione letteraria, poetica che era proprio la moda a trasmettere e che diventava cultura nel senso più ampio e profondo. 
    È questa atmosfera dell'Italian Style che si respira nelle pagine del recente romanzo di Letizia Muratori Sole senza nessuno (Adelphi, pp. 133, euro 16), dove le vicende e i ricordi della protagonista e io narrante Emilia, ex mannequin dei primi anni '60, si legano a quelli di sua madre Iole, già première nell'atelier romano delle Sorelle Fontana. La moda per Muratori è un ambito pieno di racconti, di storie mai narrate sottese alle storie più note: sono intessute tra le pieghe degli abiti di Ava Gardner, una a cui non si riusciva mai a prendere le misure, e di Audrey Hepburn, che poi «tradì» le Fontana per Givenchy. Sono i racconti del passaggio della moda italiana dalla Sala Bianca di Firenze alle sartorie romane e poi alle passerelle di Milano, paralleli ai rivestimenti di Emilia che indossa i nomi eccelsi di quegli anni: Capucci, Galitzine, fino ai primi capi della milanese Mila Schön.
    Oggi, al tempo in cui si svolge il romanzo, di quel mondo non resta che la parodia: Emilia si trova infatti a venire ingaggiata come consigliera di stile da un suo vecchio amico e innamorato, Murita, celebre un tempo nel mondo della moda romana, e oggi organizzatore di viaggi per quei giapponesi che usano trascorrere a Roma un week end per ricevere una benedizione in una chiesa cattolica con abiti, addobbi e cerimonia da matrimonio. Al loro ritorno a casa, le foto di quella cerimonia saranno mostrate agli amici come le cartoline di un "vero e tipico" matrimonio italiano.
    Stili di strada in evoluzioneCosa resta allora delle storie della moda nella contemporanea complessa idea di «letteratura»? Le sgallettate novellette della chick-lit? Le ossessioni dello shopping? I diavoli che vestono Prada? Le biografie agiografiche degli stilisti? Non c'è solo questo, per fortuna, sebbene siano questi generi a venir presentati oggi dal discorso editoriale mainstream come uniche scritture della moda. Eppure possiamo ritrovare esempi contemporanei dove la moda diviene letteratura in Gomorra, in quella storia (vera o fittizia, ma poco importa) di Pasquale, l'artigiano campano che lavora nel sottobosco delle produzioni tessili della cintura napoletana e che vede in tv l'abito fatto da lui addosso ad Angelina Jolie la notte degli Oscar. O nella saga generazionale di Jonathan Coe, composta dei romanzi La banda dei brocchi e Il circolo chiuso, dove ad essere «scritti» insieme sono la città di Birmingham e gli stili di strada giovanili tra i primi anni '70 e i primi 2000. 
    Di moda sono poi intessute quelle forme di letteratura contemporanea rappresentate dai blog, dove si è creato proprio il genere dei fashion blog, oggi uno dei principali veicoli di comunicazione delle mode, sia istituzionali che «di strada». Dai più celebri e autorevoli come il Sartorialist, a quelli delle native di Internet come Style Rookie di Tavi Gevinson, fino ai più sarcastici come l'italiano «Le malvestite», i blog di moda non solo collezionano immagini e commenti su collezioni e capi d'abbigliamento, ma creano a loro volta stili vestimentari. Proprio come accadeva un tempo quando le consigliere di bon ton scrivevano dalle pagine delle riviste «femminili». 

lunedì 6 settembre 2010

Linguistica informatica 2010-2011: programma laurea magistrale

Facoltà di Lingue e Letterature straniere
Corso di Laurea Magistrale in Lingue moderne per il turismo sostenibile

Programma dell’insegnamento di

Linguistica informatica
Anno acc. 2010-2011
Prof. Patrizia Calefato



Titolo del corso: Sociosemiotica del web

Contenuti: testualità digitali; turismo sostenibile e web 2.0; cittadinanza, politica e socialità in rete.    


Le lezioni si svolgono nel II semestre.


TESTI DI STUDIO: 


·        P. Calefato, Metamorfosi della scrittura, Bari, Progedit, 2011.
·        F. Gatti e F. R. Puggelli, a cura, Nuove frontiere del turismo, Milano, Hoepli, 2006.
·        Lella Mazzoli, a cura, Network effect. Quando la rete diventa pop, Torino, Codice, 2009.
·        Plat 2, Prospettive translinguistiche e transculturali, a cura di A. Ponzio e P. Calefato, sezione “Cyberculture”, Lecce, Pensa, 2009.




Prof. Patrizia Calefato
Tel: 080 5717407
Spazio web personale:
calefato.blogspot.com



Linguistica informatica 2010-2011: programma laurea triennale

Facoltà di Lingue e Letterature straniere
Corsi di Laurea Triennale

Programma dell’insegnamento di

Linguistica informatica
Anno acc. 2010-2011
Prof. Patrizia Calefato



Titolo del corso: I testi, le parole, i corpi, i luoghi del Web 2.0.

Contenuti del corso: testi elettronici; corpo e tecnologie; media digitali e scrittura.


Le lezioni si svolgono nel II semestre.


TESTI DI STUDIO:
·        P. Calefato, Metamorfosi della scrittura, Bari, Progedit, 2011.
·        Laura Borras Castanyer, a cura, Testualità elettroniche, Bari, B.A. Graphis, 2006.
·         Plat 2, Prospettive translinguistiche e transculturali, a cura di A. Ponzio e P. Calefato, sezione “Cyberculture”, Lecce, Pensa, 2009.




Prof. Patrizia Calefato
Tel: 080 5717407
Spazio web personale:
calefato.blogspot.com


Sociolinguistica 2010-2011: programma laurea magistrale

Facoltà di Lingue e Letterature straniere
Corsi di laurea magistrale

Programma dell’insegnamento di

Sociolinguistica
Anno acc. 2010-2011 - I semestre
Prof. Patrizia Calefato


TITOLO DEL CORSO: Linguaggio, cultura, ideologia
CONTENUTI: Basi semiotiche e ambiti della sociolinguistica oggi in relazione alle problematiche traduttive e interculturali. Linguaggio e alienazione linguistica. La traduzione culturale e gli studi postcoloniali.

Le lezioni si svolgono nel I semestre

TESTI DI STUDIO:
·       Ferruccio Rossi-Landi, Semiotica e ideologia, III edizione, a c. di A. Ponzio, Milano, Bompiani, 2007.
·        Annarita Taronna (a cura), Translationscapes: Comunità, lingue e traduzioni interculturali, Bari, Progedit, 2009.
·        R. Young, Introduzione al postcolonialismo, Roma, Meltemi, 2005.




Prof. Patrizia Calefato
Tel: 080 5717407
Spazio web personale:
calefato.blogspot.com


Sociolinguistica 2010-2011: programma laurea triennale

Facoltà di Lingue e Letterature straniere
Corsi di laurea triennale

Programma dell’insegnamento di

Sociolinguistica
Anno acc. 2010-2011
Prof. Patrizia Calefato



Titolo del corso:  Linguaggio e genere nei media
Contenuti del corso: Lingue e linguaggi nella società contemporanea. Media audiovisivi e raffigurazione dei generi sessuali. Il corpo, il tempo e la moda.


TESTI DI STUDIO:

·         Gaetano Berruto, Prima lezione di sociolinguistica, Roma-Bari, Laterza, 2004.
·         Patrizia Calefato, Gli intramontabili, Roma, Meltemi, 2009.
·         Saveria Capecchi, Elisabetta Ruspini (a cura), Media, corpi, sessualità. Dai corpi esibiti al cyber sex, Milano, Angeli, 2009.

Le lezioni si svolgono nel I semestre


Prof. Patrizia Calefato
Tel: 080 5717407
Spazio web personale:
calefato.blogspot.com

mercoledì 16 giugno 2010






NESSUNO TOCCHI I BLOG

Sotto il vestito niente di nuovo. Processo alla "casta" della moda italiana

Articolo e box pubblicati il 2/6/2010 su La Gazzetta del Mezzogiorno


Mi occupo da sempre di linguaggi, segni e culture della moda, ma lo confesso, non ho mai amato la moda “istituzionale”, in particolare quella italiana. Le passerelle kitsch, le pierre affariste, le modelle anoressiche, gli stilisti con i capitali in Svizzera, gli architetti “fashionisti”, i locali lounge milanesi, i concept store di facciata, mi sembrano diventati, soprattutto nell’ultimo decennio, la parodia di quello che era stato l’ambiente del Made in Italy solo fino a vent’anni prima, e l’ulteriore parodia di quell’Italian style che nel dopoguerra seppe realizzare un felice connubio  tra moda e ricostruzione anche culturale del Paese. Riesco a mettere in una luce più chiara questo mio personale fastidio attraverso la lettura del libro di Luca Testoni L’ultima sfilata. Processo alla casta della moda italiana (Sperling & Kupfer, 2010) in cui l’autore, giornalista esperto del settore moda, descrive in modo impietoso cosa sia accaduto al tanto decantato Made in Italy vestimentario negli anni Duemila e quale futuro prossimo lo aspetti. Un futuro rovinoso, se diamo attendibilità alla previsione che l’autore proietta nel 2015, anno dell’Expo di Milano, anno in cui – così si apre il libro – si immagina che la Camera nazionale della Moda annulli la rituale settimana delle passerelle di febbraio, con una dichiarazione firmata dalla “Presidentessa”. Dietro questo nickname Testoni cela la nuova anima pasticciona, arrivista e fallimentare che regge oggi il sistema moda mainstream nel nostro Paese. Una vera casta, incapace di riprodurre altro oltre se stessa, e al limite capace di autodistruggersi, come nello scenario paventato dal libro. Uno scenario in realtà già anticipato in avvenimenti reali emblematici avvenuti a Milano, come nel 2005 la riduzione delle giornate della settimana della moda in base a un diktat di fatto della direttrice di Vogue America Anna Wintour, o nel 2009 la revisione continua fino all’ultimo del calendario delle sfilate.
Le ragioni che secondo Testoni hanno portato a questa situazione in Italia sono molteplici: gli eccessi di spese e di lussi al di là del pensabile che hanno imperato in questo settore fino agli anni ’90; l’incapacità di formare esperti della comunicazione moda, dagli uffici stampa ai pierre, che non fossero semplici promoter commerciali, bensì persone in grado di saperci fare con la testa, le parole e i numeri; la totale mancanza di “gioco di squadra” delle aziende; la progressiva sparizione dei capitali verso i paradisi fiscali; la cecità di fronte al fenomeno del pronto-moda che ha fatto invece la fortuna dei colossi spagnolo e svedese dello chic and cheap. A questi si aggiunga la concezione “colonialista” dell’Italia verso i mercati non europei e la miopia rispetto all’emergere in questi anni di nuovi centri della moda propulsivi di idee e valori aggiunti, oltre che in Europa, anche in Africa, Brasile e Asia.
L’autore descrive sarcasticamente il servilismo sfrontato del giornalismo di moda, la realizzazione di redazionali in pratica finanziati dalle aziende inserzioniste o i regali dispendiosi a redattrici e direttrici che le stesse aziende elargiscono a man bassa. Il che ha condotto per decenni all’inesistenza di un vero dibattito critico sulla moda nei giornali, nelle riviste e nelle tv italiane, dove i servizi di moda il più delle volte sono dei panegirici coloriti di questo o quest’altro stilista, in realtà, chiamandole col proprio nome, “marchette”. 
Certo, non ci si risveglia appena adesso dal sogno imbambolato della “Milano da bere” passata ormai nelle mani del trash e dell’arroganza generale. Ci sono le mutande di Beckham marchiate dal celebre stilista, le sfilate sponsorizzate dai pomodori, l’azienda di moda uomo che assume come testimonial in passerella nientemeno che Fabrizio Corona, la stupidità che porta l’attuale governo a tentare di creare un marchio “Magic Italy” capace solo di griffare qualche ministra e incapace di affrontare invece il problema di dove e come il Made in Italy ormai si produca realmente, dall’Asia, all’Europa orientale, ai laboratori illegali sul suolo del Bel Paese.
Osservatori onesti e studiosi disinteressati vedevano già da tempo le macerie venture. Il mio primo personale incontro diretto con la Milano delle sfilate avvenne proprio nel Duemila, quando mi affacciai da spettatrice curiosa guidata da una Virgilio di eccezione come Benedetta Barzini, che del sistema moda è da tempo lucida vivisezionatrice, avendone calcato dandisticamente le scene per mezzo secolo e conoscendone bene le signorie e le schiavitù, i talenti e i bluff, le potenzialità e i deliri. E in quel Duemila già poteva vedersi in atto il processo che Testoni porta a conclusione in un’Expo 2015 certamente molto lontana da quelle Esposizioni universali che tra Ottocento e Novecento, a Parigi, a Milano, a Torino, segnarono punti di svolta per la produzione industriale e l’avvio della moda come mezzo di comunicazione di massa.
Oggi non sembra esserci via d’uscita se non si investe nella cultura della moda, in quella vera, dei giovani che spesso – come in tutti gli ambiti – sono costretti a trovare i loro spazi all’estero. Questa “cultura” è stata concepita dalle aziende italiane al massimo come mecenatismo o come commissione al jet architetto o jet designer per il proprio punto vendita a Manhattan o a Shanghai. Tutt’altro è invece il sapere della moda e dei suoi linguaggi, e ben fanno le scuole di moda a occuparsene, salvo poi purtroppo trasformarsi spesso in formatrici di intelligenze che espatriano. La miopia è dell’intero attuale  “sistema Italia” che non investe né in formazione né in ricerca e che in tal modo alimenta le sue caste. Il sistema della moda è una spia allarmante di quanto possa ancora accadere in questo Paese e della sua progressiva marginalizzazione.



Box: La Puglia punta sulla creatività
 Investire sui giovani e sulla cultura della moda si può. Tre esempi, tra tanti, in Puglia che vedono tra gli animatori ragazzi che provengono dal Corso di laurea in Scienze e Tecnologie della Moda dell’Università di Bari.
 “Sympathy for the Unusual” mette insieme arte, design e web per creare T-shirt, oggetti di moda su cui da sempre si esercita la fantasia pittorica e grafica più immaginativa del nostro tempo, oggetti di comunicazione a tutti gli effetti. I due ideatori del progetto – Angelo Superti e Ruggiero Dipaola – si avvalgono programmaticamente della collaborazione di artisti incontrati sul web e della rete come mezzo di diffusione e vendita. Il marchio è presente al momento in 14 boutique prestigiose in Puglia e in significativi concept-store ad Amsterdam, Barcellona, Stoccolma e New York.
“Discipline” è un progetto finanziato dal Bando della Regione Puglia “Principi attivi” e concepisce la moda come un connubio tra immaginario collettivo, musica e cultura. La collezione del 2010 si ispira per esempio al Ballo Black and White organizzato a New York nel 1966 dallo scrittore Truman Capote.  I 4 giovani collaboratori, Barbara Laneve, Marino Bombini, Cesare Morisco e Gae Antonacci, definiscono la loro pratica di lavoro come una “piattaforma” per lanciare idee, proprio come le piattaforme spaziali o quelle digitali.
“Millenovecento”, anch’esso un progetto vincitore di “Principi Attivi”, è contemporaneamente un museo della moda, un negozio vintage e un laboratorio di creazioni su richiesta, animato dalla raffinata cultura di Luciano Lapadula e Vito Antonio Lerario. Nei suoi locali nel centro di Bari si possono trovare creazioni di nomi famosi come Schiaparelli, Simonetta o Dior risalenti agli anni dai ’30 ai ’50, abiti storici di inizio Novecento, vintage anni ’80, minigonne alla Patty Pravo anni ’60 e un ambiente interamente ispirato al secolo della moda. Hanno creato costumi per video musicali, partecipato a seminari universitari, e di recente prodotto abiti per uno spot della Apulia Film Commision che promuove la Puglia come set cinematografico.
Il Corso di Moda l’anno prossimo chiuderà, si spera solo temporaneamente perché ci sarebbe da investirci davvero in risorse umane ed economiche, invece che far passare sulla sua testa i “tagli”, quelli sì molto di moda in questo periodo.


Metti tecnologia nel guardaroba

Articolo pubblicato su La Gazzetta del Mezzogiorno del 15/6/2010




La notizia potrebbe ulteriormente accalorare i lettori, in una stagione estiva  già di per sé infuocata come quella che stiamo vivendo, ma vale la pena di rifletterci sotto vari aspetti: la Moessmer, storica azienda di loden di Brunico, ha brevettato di recente un nuovo tessuto completamente ignifugo. Principale utilizzo di questa stoffa sarà ovviamente la tappezzeria, dai tendaggi ai rivestimenti di poltrone e divani, ma immaginiamo anche che non sarà escluso dal novero degli oggetti così fabbricati l'abbigliamento, visto che di tessuto loden pur sempre si tratta e che l'idea di un indumento protettivo in ogni senso è radicata nel costume umano sin da quando uomini e donne hanno cominciato a rivestire i loro corpi. Possiamo dunque ipotizzare che prenderanno presto forma cappotti, giacche, completi maschili e femminili, che alla tradizionale consistenza culturale del loden sud-tirolese uniranno la pregiatezza di una protezione tutta naturale. E in questo come in altri casi, la “naturalità” è un valore aggiunto di eccezione, che accompagna il faticoso processo che la moda sta attraversando in alcuni suoi ambiti, nei quali l'indumento tenta di comunicare una consapevolezza e un senso etico riguardo alla sostenibilità dei suoi processi di produzione e circolazione.
Proteggere e attrarre sono due ragioni fondamentali del senso che attribuiamo – in quanto esseri umani – al fatto stesso di vestirci in fogge diverse, di seguire la moda, di scegliere certi indumenti, certi colori, certi stili che regolano e scandiscono il nostro apparire nel mondo. La moda ha una natura duplice: da un lato marca le zone di contatto tra gli indumenti e il corpo mettendo in azione i sensi; dall’altro colloca il corpo individuale entro quello sociale, istituzionalizza sensi e pulsioni in una “media” sancita dal gusto come senso comune.  Questo senso comune è oggi prevalentemente il “mordi e fuggi”: la ridotta disponibilità di denaro da consumare in vestiti e accessori ci ha fatto abituare all'idea low cost anche dell'abito, come del viaggio o dell'arredamento.
Parallelamente a questa idea cresce però nel sentire comune anche un desiderio di maggiore sicurezza e durata legato finanche a forme di consumo “frivolo” come un vestito o un paio di scarpe. Matura l'idea di un “lusso” accessibile e non effimero fondato proprio sulla qualità ed “eternità”, per così dire, di quanto indossiamo. Movimento contrario, ma complementare, rispetto al “pronto moda”, a quanto potremmo definire “accaemmizzazione” o “ikeizzazione” dei consumi quotidiani, fondati certamente su un concetto democratico di stilismo e design per tutti, ma anche su una organizzazione globalizzata del lavoro che punta a produrre oggetti, beni o servizi, quando c'è domanda, spesso però senza badare al come, al dove, a quali condizioni si produca e che cosa si produca. Ecco allora che brevetti come quello dell'azienda altoatesina divengono preziosi, a condizione che possano essere di sprone per la qualità, l'innovazione e la ricerca in un ambito tanto devastato come il Made in Italy nel settore del tessile e abbigliamento.
Se da un lato l'idea di tessuto naturale è preziosa, soprattutto per la cultura manifatturiera italiana, dall'altro, però, la tecnologia continua ad essere un elemento importante nell'ambito delle innovazioni possibili anche nella moda. Spiccano, nel novero delle tecnologie naturali, semplicissime e comodissime idee come per esempio quella della borsetta dotata di cellula fotovoltaica che permette di ricaricare il cellulare o il lettore mp3 mentre vi viene custodito dentro, o quello del contenitore per il notebook in grado di alimentarlo direttamente con l'energia solare. Più sofisticate le nanotecnologie applicate ai tessuti, ormai sperimentate nella produzione di indumenti tecnici sportivi e da lavoro che mantengono e producono calore o che proteggono dalle radiazioni elettromagnetiche. Anche la geolocalizzazione viene “incorporata” nel tessuto così che, per esempio, una uniforme militare così confezionata può fungere da “antenna” per conoscere dove si trovi ciascun soldato in un campo di battaglia. L'abbigliamento sportivo può assumere invece il compito di monitorare direttamente a contatto con il corpo i battiti cardiaci o la pressione sanguigna di un atleta. E poiché nella storia della moda, le uniformi degli eserciti e quelle sportive hanno spesso fornito ispirazioni celebri, come il bomber, il cardigan e lo stile casual, immaginiamo che anche da tali applicazioni che coniugano abito e tecnologia qualcuno possa prendere spunti interessanti.
L'ultima idea è stata lanciata, in collaborazione con una multinazionale della comunicazione, da Guru, l'azienda che una decina di anni fa lanciò le celeberrime magliette con la margherita, ma che dopo pochi anni andò in bancarotta per gli eccessi sconsiderati del suo proprietario. Questa azienda è stata di recente acquistata da un brand indiano è metterà alla prova delle vendite durante questa estate la “social T-shirt”. Si tratta di una maglietta che riporta impressa sul petto, al posto delle canoniche scritte, il codice QR, quello che compare ormai su molti giornali e che – inquadrato dal telefono cellulare dotato di un software apposito – permette di risalire a informazioni sempre aggiornate. Chi indossa questa maglietta potrà aggiornare il proprio status proprio come si fa su Facebook, grazie a un’apposita applicazione; sempre grazie al medesimo software, il messaggio verrà decodificato per tutti “gli amici” del gruppo che potranno anche essere geolocalizzati ovunque si trovino, magari anche tra le amene montagne intorno a Brunico dove ha sede l'azienda di loden citata all'inizio.
Tra natura e tecnologia, le strade che si aprono al settore moda sono tante, ma saranno in grado le politiche al tempo della crisi di promuovere le innovazioni migliori e soprattutto di attrarre la ricerca, soprattutto quella che coniuga sostenibilità, praticità ed esteticità? Creerà futuro quel modello che risponderà sì a questa domanda.


giovedì 13 maggio 2010

Presentazione di Media, corpi, sessualità



Comitato Pari Opportunità



Media, Corpi, Sessualità
Presentazione del Volume a cura di
Saveria Capecchi e Elisabetta Ruspini
13 maggio 2010, ore 16.30
Facoltà di Lingue e Letterature Straniere, Aula B

Saluti del Magnifico Rettore prof. Corrado Petrocelli

Introduce prof.ssa Patrizia Calefato

Saranno presenti le Autrici

Iniziativa in collaborazione con La Libreria Laterza, “Reti di donne nella scrittura”

Sarà rilasciato attestato di partecipazione

Segreteria organizzativa: Felicia Baldi, comitato@pariopportunita.uniba.it

mercoledì 28 aprile 2010

Turisti e viaggiatori del web

     facoltà di lingue e letterature straniere
Corso di Linguistica informatica
Lunedì 3 maggio 2010, ore 8.30, Laboratorio 1
(Giornalista RAI)
Terrà una lezione su:
“Turisti e viaggiatori del web”

Social Media Revolution

domenica 11 aprile 2010

“Macchine” e linguaggio: l’automazione segnica delle nuove tecnologie comunicative*















































*Relazione presentata al convegno The Relevance of Rossi-Landi’s Semiotics Today, Bari, Università degli studi, 14-16 novembre 2002. Pubblicata in “Athanor”, 7, n.s., Lavoro immateriale, a c. di S. Petrilli, Roma, Meltemi, 2004, pp. 223-231, ora in P. Calefato, Nel linguaggio, Roma, Meltemiexpress, 2004.








Apro questo intervento raccontandovi in breve sintesi un racconto di fantascienza di Arthur C. Clarke, I nove miliardi di nomi di Dio (1953), un classico del genere molto tipico degli anni ’50 contenuto in italiano in una di quelle splendide raccolte einaudiane, Le meraviglie del possibile (1959). Sono particolarmente affezionata a questo racconto che utilizzai anche come metafora del rapporto parola/morte/tecnologia in uno dei miei primi scritti, Tempo e segno, del 1983. Ecco di cosa parla il racconto:
Una famosa ditta americana di informatica riceve da alcuni monaci buddisti la commissione di costruire un calcolatore dotato di una particolare informazione. La macchina dovrebbe essere modificata in modo tale da stampare lettere invece che cifre (pensate che a quel tempo i calcolatori erano oggetti enormi - non erano ancora state inventate le microtecnologie che oggi tutti noi utilizziamo nei personal computer - e producevano dati in linguaggi formali su schede perforate) al fine di rendere più veloce una operazione a cui i monaci stavano lavorando da circa 300 anni. L’operazione consiste nel riuscire a fornire tutte le combinazioni possibili di lettere appartenenti a un alfabeto inventato dai monaci, combinazioni che contengano tutti i possibili nomi di Dio, circa 9 miliardi. La ragione di questo rituale è che Dio stesso, secondo i monaci, si è posto come fine quello di venire nominato dalle sue creature, e quando tale operazione sarà finita, sarà anche finita ogni ragione di esistenza dell’uomo e del mondo. La macchina dovrebbe riuscire a svolgere questo compito in un tempo infinitamente più breve rispetto ai 1500 anni che il lavoro richiederebbe manualmente. Così, in cambio di una cifra considerevole e con parecchio scetticismo verso la convinzione dei monaci, la ditta americana costruisce questa macchina e manda due tecnici, Chuck e George, in Tibet per collocarla nel monastero e per cominciare a farla funzionare nella direzione richiesta. Nello splendido scenario delle montagne himalayane, Chuck e George avviano il lavoro dell’elaboratore che svolge in pochi mesi, anche meno del previsto, la sua funzione: il racconto si concentra così sul momento in cui i 9 miliardi di nomi stanno per essere completati e i due tecnici, assolutamente increduli e abbastanza timorosi dell’ira che prevedono nei monaci quando scopriranno che, completata l’opera del calcolatore, non succederà proprio nulla, si allontanano dal monastero. Ma proprio mentre i due stanno per raggiungere l’aereo che viene a riprenderli, proprio mentre la macchina sta ultimando le combinazioni possibili…

-          Guarda, - mormorò Chuck, e George alzò gli occhi al cielo. (C’è sempre un’ultima volta, per tutto).
Lassù, senza tanto chiasso, le stelle si stavano spegnendo (Clarke 1953, p. 525).

Lascio per ora questa bella storia alle sue suggestioni e passo alla esplicazione di cosa intendiamo per “macchina” alla luce della “Omologia fra produzione linguistica e produzione materiale” di Rossi-Landi. La macchina si colloca a partire dal sesto livello della omologia, dove prende il nome di “meccanismo”. Scrive Rossi-Landi,

Le macchine sono utensili composti e organizzati finalisticamente, capaci di lavorare in maniera uniforme anche prescindendo dal come e dal dove vengano impiegati e da chi li impieghi. La lavorazione che l’artefatto è chiamato a svolgere quando ha assunto il rango di macchina è una lavorazione già presente, o anticipata, nella sua struttura (1985, p. 72).

Questa definizione fissa i caratteri primordiali della macchina, i quali si determinano non semplicemente in forma “tecnica”, ma socialmente:

La macchina, funzionando, si pone come qualcosa di pseudo-naturale che è stato generato dalla società. Essa reca e impone i suoi propri programmi (pp. 72-73).

La dimensione sociale della macchina viene assunta a livello della pseudo-natura, o con terminologia marxiana “seconda natura”: la macchina appare come naturalmente orientata a svolgere il suo compito proprio per questa sua capacità di anticipare nella sua stessa struttura la lavorazione che è chiamata a svolgere. Tale struttura assume anch’essa una connotazione sociale, dal momento che la macchina, per essere tale e non semplice utensile, necessita di una relazione tra almeno due pezzi che si condizionano reciprocamente (p. 73). Ognuno dei due pezzi deve avere una funzione precisa, ma non deve trattarsi di semplice contrapposizione in cui, se uno dei due prendesse il sopravvento, nulla di nuovo si formerebbe:

I due utensili – scrive Rossi-Landi – debbono invece trovarsi in opposizione e tale opposizione deve venir superata dialetticamente cioè dar luogo a una sintesi (ib.).

Esempi di tali macchine “meccaniche” nell’ambito della produzione materiale sono secondo Rossi-Landi i telai, le biciclette, i giradischi, i torni, le seghe elettriche, le macchine per scrivere (p. 72). Nell’ambito della omologa produzione linguistica, esempi di “macchine” di questo tipo sono i sillogismi:

Il sillogismo prende l’avvio da due enunciati (dall’enunciazione di due proposizioni), i quali sono messi a lavorare fra di loro. La conclusione è la somma dialettica delle due premesse (p. 76).

Secondo Rossi-Landi, è probabile che il meccanismo di tipo sillogistico sia legato alla scrittura, che egli intende, come direbbe Ponzio, non semplicemente come trascrizione, ma come qualcosa che fa parte di un più generale insieme costituito dalle “tecniche consolidate per il tramandamento orale del sapere” (ib.). In virtù di tali tecniche è possibile la creazione di macchine enunciative impersonali, a se stanti, in grado di funzionare a prescindere da quale individuo, in quale tempo o luogo le impieghi (p. 77). Come ci dimostra l’apprendimento del linguaggio infantile, l’acquisizione della “macchina” linguistica permette l’obiettivazione del mondo e quello che Rossi-Landi chiama “il formarsi della razionalità”.
All’ottavo livello dell’omologia Rossi-Landi colloca l’automazione (o meccanismo totale) che prevede non solo l’esistenza di meccanismi complessi e autosufficienti (presenti al settimo livello come “macchine capaci di svolgere lavorazioni plurime” – p. 78), ma macchine che comprendono anche

l’intera programmazione necessaria a passare da un meccanismo all’altro secondo un piano (p. 79).

La semplice programmazione si traduce in piano, in quella capacità che le macchine complesse hanno di passare da un livello ad un altro ed anche di programmare se stesse funzionando in modo autonomo. Una delle ultime possibilità che Rossi-Landi ebbe di parlare di questo tema risale al 1985, anno della sua morte, anno in cui ho avuto l’onore di partecipare a un seminario con lui, organizzato da Augusto Ponzio e tenutosi in questo stesso luogo, in questa stessa aula, sia pur prima della ristrutturazione della facoltà, con alcune delle persone che oggi sono qui, oltre a chi purtroppo non c’è più (oltre a Ferruccio, Vito Carofiglio). In quella sede egli si riferì esplicitamente all’elaboratore, o cervello elettronico o calcolatore, o computer, come esempio di macchina a meccanismo totale in cui la produzione materiale e la produzione linguistica si ricongiungono:

Si può salire lungo quello che io ho chiamato “schema omologico della produzione” fino a un certo punto, dove accade una cosa impressionante e cioè che le due produzioni confluiscono. Questa è una cosa degli ultimi pochi decenni: perché nella produzione del computer confluiscono un hardware, nel linguaggio dei tecnici, cioè un corpo materiale, la materia elaborata di cui è costituito il computer, e un software, cioè un programma, un insieme di rapporti logici esprimibili verbalmente. Quindi il non-linguistico, l’oggettuale e il linguistico ad altissimo livello di elaborazione sono confluiti l’uno nell’altro quasi sotto i nostri occhi. Io son abbastanza vecchio per dire che sono confluiti sotto i miei occhi, ma anche quasi soltanto sotto gli occhi delle persone più giovani qui presenti. E’ chiaro che ci troviamo di fronte a un enorme rivolgimento. Noi produciamo degli oggetti che sono, per dirla in maniera troppo semplice ma percepibile, al tempo stesso materiali e linguistici, e ci siamo arrivati soltanto adesso con i computers più recenti (Rossi-Landi 1984, p. 171).

La geniale intuizione della omologia tra produzione materiale e produzione linguistica, motivata in Rossi-Landi dai fondamentali presupposti marxiani da cui egli partiva, esprime in queste sue ultime considerazioni interrotte dalla prematura morte, la sua capacità di anticipare e intendere questioni attualissime su cui si oggi misurano le scienze del linguaggio e le scienze sociali, in omologia reciproca.
Le architetture informatiche inglobano nella loro struttura materia segnica: il concetto di “materia segnica” supera, in questo contesto, la differenza che un teorico delle nuove tecnologie come Nicholas Negroponte pone tra gli “atomi” (la materia intesa in senso fisico, o meglio, “fisicalista”, che può cioè esser toccata, pesata, che occupa uno spazio) e i “bit” (l’unità minima dell’informazione digitalizzata che si basa sulla rappresentazione binaria 1/0). Possiamo considerare infatti, alla luce della teoria dei “residui segnici” di Rossi-Landi (1985, pp. 137-166), i “bit” come segni e gli “atomi” come corpi: tra di loro non vi è identità, ma relazione dinamica, interpretazione reciproca, possibilità di trasformarsi vicendevolmente l’uno nell’altro. In quanto segni, i cosiddetti “bit”, cioè ad esempio i dati che fluiscono nelle reti telematiche, quelli incorporati nella memoria di un computer, di un dischetto, di un CD rom o di un DVD, i pixel che compongono le immagini in video sul nostro teleschermo domestico, i flussi di informazione a distanza che attraversano i fili di rame o le fibre ottiche, sono tutte merci. Si tratta di merci il cui valore è da intendersi come valore comunicativo nel senso più ampio dell’espressione.
Secondo Rossi-Landi, le macchine totalmente automatizzate hanno inglobato in se stesse non solo i sistemi segnici verbali, ma anche i sistemi segnici non-verbali, realizzando una totale automazione segnica. Questo ha reso possibile, manifesto, quanto già esisteva in forma implicita e inconsapevole da centinaia di millenni per il semplice fatto che un sistema segnico, a cominciare dal linguaggio, è di per sé una macchina dalla complessità enorme la cui struttura è richiamata omologicamente dalle macchine a totale automazione. Come sottolineano Ponzio e Petrilli citando a loro volta Rossi-Landi, il linguaggio è inteso come macchina non soltanto nella formale dimensione della doppia articolazione verbale, bensì in una dimensione meta-semiotica complessiva (Ponzio e Petrilli 2002, p. 295). La doppia articolazione di cui ha parlato Martinet (1960) riguarda infatti il duplice rapporto che il segno linguistico verbale presenta a livello delle unità significative (i monemi, a loro volta composti di significante e significato) e delle unità distintive (i fonemi, di numero finito in ciascuna lingua e legati reciprocamente da rapporti di opposizione binaria). In virtù della doppia articolazione, il linguaggio verbale è in effetti, come ha notato Barthes, un codice digitale, che funziona per digits proprio come le macchine elettroniche (Barthes 1998, p. 181). La doppia articolazione risolve infatti la linearità del significante attraverso uno schema di funzionamento simultaneo a due piani. Tuttavia, nota Rossi-Landi in Between Signs and Non-Signs (1992, pp. 173-176), in questo seguito da Ponzio e Petrilli, che la teoria della doppia articolazione non tiene conto del lavoro sociale linguistico che caratterizza il linguaggio come esperienza e non come macchina formale. E’ questa complessità esperienziale, questo lavoro segnico sociale, che vive nella “macchina” come sua struttura portante, come linguaggio in essa incorporato, come memoria, in un certo senso. Quelle che definiamo nuove tecnologie non hanno dunque nulla di totalmente “nuovo”: esse, possiamo dire utilizzando le parole di Rossi-Landi, “in quanto sociali, costituiscono la forma raggiunta della materia come risultato del lavoro umano stratificatosi per decine anzi centinaia di millenni” (p. 80). Nella macchina, aggiunge lo studioso utilizzando un concetto marxiano, “il lavoro umano vivifica aspetti di per sé morti” (ib.).
La logica dei monaci buddisti di Clarke potrebbe essere perfettamente inclusa in questo orizzonte. Ma c’è, ovviamente, dell’altro.
L’automazione segnica, infatti, si completa a quel decimo livello dell’omologia che viene definito da Rossi-Landi della “produzione globale”, la quale riguarda il fatto che un dato artefatto, sia esso verbale o non verbale, esplicita, per così dire “racconta”, mostra, la totalità produttiva che lo ha generato (p. 83). Tutti i sistemi segnici oggettuali e verbali di una unità produttiva rivelano la totalità produttiva di cui sono il frutto. Questo si mostra oggi con particolare pregnanza proprio nelle “macchine” ad automazione totale che palesano sia quella che Marx nei Grundrisse (in quello che viene chiamato il “Frammento sulle macchine”) chiamava la powerful effectiveness di una società, cioè il sapere sociale nella macchina incorporato, quel knowledge divenuto “forza produttiva immediata” (Marx 1857-58, II, pp. 400, 403), sia la dimensione globale della riproduzione sociale complessiva. Tali macchine, infatti, non sono semplicemente il “risultato” del sapere sociale, ma costituiscono il sapere sociale in quanto tali, incorporando altresì la totalità dei sistemi segnici, dal momento che la loro dimensione reticolare le rende ubique, globalizzanti e globalizzate.
Vediamo nello specifico quali siano le qualità di tali macchine e quali aspetti dell’automazione segnica esse contengano. Allo stato attuale della ricerca, le macchine vengono definite come “agenzie” o “sistemi a molti agenti” (Somalvico 2002, p. 45). Si tratta di vere e proprie “macchine della comunicazione” (ib.), infatti esse progettano e regolano rapporti comunicativi automatizzati che intercorrono: tra diversi linguaggi naturali e/o formalizzati, tra esseri umani, tra l’essere umano e la macchina stessa, e, oggi con sempre maggiore incremento della ricerca, tra esseri umani e casa (ambito della domotica), la città (ambito della urbotica), la terra (ambito della orbotica) (p. 44). In generale, per definirle, si usa il termine di “elaboratore” (più completo di quello di “calcolatore”, che designa una macchina dalle applicazioni solo aritmetiche); se la macchina simula anche funzioni corporee umane si usa il termine (dalle suggestioni fantascientifiche démodé, ma di uso specialistico corrente) di “robot”.
I personal computer entrati nell’uso comune e collegati nella rete mondiale, i nuovi media e i vecchi media “reinventati” in virtù della rivoluzione digitale e informatica sono il risultato visibile, tangibile, di un concetto di “macchina” che oggi designa fondamentalmente le architetture complesse delle interfacce informative e comunicative. Sono queste “architetture” che costituiscono le più diffuse e conosciute macchine della comunicazione, nelle quali è percepibile il carattere segnico dell’automazione e la dimensione pervasiva che la comunicazione ha assunto nella riproduzione sociale. Nel suo “Schema della riproduzione sociale”, Rossi-Landi definisce appunto la comunicazione come “produzione-scambio-consumo segnici” (1985, p. 35), concetto condensato nel binomio “comunicazione-produzione” che Ponzio, soprattutto nei suoi lavori a partire dalla metà degli anni ’90, ha ulteriormente sviluppato alla luce dei caratteri portanti della cosiddetta “società dell’informazione”.
La struttura delle attuali architetture informatiche fa pensare, certo in misura ancora solamente metaforica, a quelle “comunità di calcolatori” di cui Rossi-Landi (1972, p. 297) ha parlato non escludendone in assoluto la possibilità di realizzazione concreta. Il modello semiotico del web, ad esempio, è un vero e proprio modello di interazione linguistica tra macchine che si scambiano “protocolli” in procedure simultanee di interpretazione e traduzione. Noi umani che utilizziamo la rete in qualità di “utenti” veniamo a contatto soltanto con il livello per così dire “visibile” e tradotto in codice alfanumerico di tali procedure: per esempio i diversi domini “http://” e le sequenze obbligatorie di codici che designano un dato percorso nel web o un indirizzo di posta elettronica. A tutto ciò sappiamo però che corrisponde un lavoro segnico incessante nella comunità delle macchine, di cui gli esseri umani certamente programmano i percorsi, ma che non sarebbe possibile senza la macchina in quanto principio di automazione segnica.
Le “macchine della comunicazione” dell’attuale generazione, cui si applicano in modo crescente le cosiddette nanotecnologie, sono macchine “ubique”. Spieghiamo meglio questi concetti. Il termine ‘nanotecnologia’ (come quello di ‘nanoelaboratore’ e ‘nanocomputer’) riguarda, come scrive Marco Somalvico (direttore del Dipartimento di Intelligenza artificiale e robotica al Politecnico di Milano), la realizzazione di quelle macchine dell’informazione, che si stanno sviluppando nell’attuale decennio, “dalle dimensioni inferiori a quelle del corpo umano” (2002, p. 48); fino a qualche anno fa si parlava, ci dice Somalvico, di “microtecnologie”, quelle che hanno permesso a partire dagli anni ’70 l’informatizzazione dell’intero corpo sociale, dalla Pubblica amministrazione all’uso personale, e che hanno consentito la produzione di macchine “dalle dimensioni paragonabili a quelle del corpo umano” (ib.); più indietro ancora, i macroelaboratori e i macrorobot degli anni dai ’40 ai ’60 (quelli cui fa riferimento Clarke nel suo racconto), avevano invece dimensioni molto maggiori di quelle del corpo umano.
E’ interessante notare come il linguaggio specialistico usi delle metafore e dei termini di paragone che chiamano in gioco il corpo umano. L’ubiquità delle macchine dell’informazione, infatti, ha oggi il corpo come vero protagonista: è la vicinanza segnica tra i corpi ad essere esaltata in un’istituzione come Internet; è l’emulazione di funzioni sensoriali, oltre che meccaniche, che le protesi corporee di ultima generazione propongono; è l’interazione corpo-ambiente, interazione vitale quindi radicalmente e basilarmente segnica, che le domotica e le ulteriori applicazioni delle nanotecnologie comportano. In questo senso, viene privilegiata la condizione wireless (senza cavi), cioè la possibilità di collegare con onde elettromagnetiche il corpo umano con tutti gli elaboratori e i robot presenti nell’habitat, e questi tra loro. Una condizione, questa, che sembrerebbe contraddire simbolicamente la condizione wired, cablata, collegata attraverso cavi, che veniva invece esaltata negli ultimi due decenni del XX secolo (“Wired” è anche il titolo di una celebre rivista americana dedicata ai temi delle nuove tecnologie su cui scrivono i maggiori esperti mondiali in tale campo). Somalvico ricorda come il computer portatile e il telefono cellulare costituiscano gli archetipi di quello che si definisce “computer ubiquo”, cioè una macchina dell’informazione che si trova “dovunque si trovi il corpo dell’essere umano” (p. 47). E non si tratta solo di una metafora: le nanotecnologie si applicano e si applicheranno infatti sempre più al corpo, verranno “indossate” proprio come già indossiamo, in un certo senso, il telefono cellulare e incorporiamo le protesi, comprese quelle come l’orologio o le lenti a contatto non necessariamente costituite da un microchip, o, come il by-pass, emulanti funzioni organiche vitali (v. Fortunati, Katz, Riccini 2002).
Tomás Maldonado, che di Rossi-Landi fu amico e che è a lui apparentato a mio parere da quella classe e complessità inconfondibile tipica di una certa generazione di studiosi, sottolinea come il corpo, tanto centrale e attuale nella nuova rivoluzione “nanotecnologica”, sia caratterizzato dalle due dimensioni portanti dell’artificializzazione e della trasparenza. Artificializzazione, perché non solo il corpo ingloba in sé artefatti meccanici, ma anche perché in esso si insediano “macchine” complesse come quelle dell’ingegneria genetica. Trasparenza, perché, dopo la realizzazione del “Visible Human Project”, ogni parte del corpo è completamente conoscibile attraverso, possiamo dire, la traduzione dei suoi “atomi” in “bit” ottenuti attraverso Tac, risonanza magnetica e simulazioni digitali. Il corpo in senso stretto è dunque divenuto totalmente segno.
Da parte loro, le macchine stanno “diventando noi”. Parafraso qui il titolo di un volume di prossima uscita a cura di James E. Katz, dal titolo Machines that Becomes Us (2003), nel quale l’autore sviluppa questo concetto seguendo l’integrazione fisica delle macchine nel corpo umano fino al loro divenire una “seconda pelle”. personal computer si stanno trasformando in wearable computer, macchine indossabili che possono servire a scopi medici, educativi, e comunicativi in senso generale. La tecnologia invade così il campo della moda confermando di questa il carattere segnico e “mondano” (v. Calefato 1992; 2002 b; v. Valli, Barzini, Calefato 2003). Come scrive in un recente articolo Ernesto Assante, citando Thad Starner, docente di computer science all’Università della Georgia, “le esigenze di comunicazione e mobilità si fanno sempre più grandi e la richiesta per macchine che siano in grado di interagire con noi in maniera semplice e trasparente aumenta di giorno in giorno”. E, prosegue Assante, “indossare la rete sarà il passo successivo, mettere in connessione i computer indossabili con il web aprirà scenari ancora più ampi e affascinanti” (Assante 2002).
Occorre fare a questo punto un passo indietro, che permette a mio parere di guardare le cose in una prospettiva più ampia, e, soprattutto, critica. Quando Rossi-Landi parla della “naturalità” che la macchina sembra possedere che le deriva - ricordiamo quanto detto sopra - dal fatto che essa anticipa già nella sua struttura la lavorazione che è chiamata a realizzare e impone i suoi propri programmi, egli include implicitamente in questo fenomeno quello dell’inversione tra ciò che è “naturale” e ciò che è invece il risultato di un rapporto sociale, inversione che è tale dal punto di vista di chi è artefice del rapporto sociale stesso, cioè del “lavoratore linguistico” umano. In questa inversione ritroviamo un concetto marxiano, quello del feticismo delle merci, in base al quale nella produzione capitalistica il prodotto del lavoro umano, cioè la merce (il segno nella concezione rossilandiana), viene eretto ad essere animato, mentre il suo produttore si aliena in essa, si reifica (Rossi-Landi parla conseguentemente di alienazione linguistica e segnica). Seguendo un percorso diverso, ma parallelo, questa inversione richiama anche il processo che secondo Roland Barthes è alla base della costituzione del mito contemporaneo, vale a dire la trasformazione in natura di ciò che è stato culturalmente elaborato. Come scrive infatti Barthes, “il mito trasforma la storia in natura” (1957, p. 210). In qualche modo ci spieghiamo così il fascino perverso della macchina, il sex appeal dell’inorganico di cui ha parlato Benjamin, la fiducia messianica o viceversa il millenaristico scetticismo rivolto nei confronti dell’automazione nella tradizione del “luddismo” storico, in quella della letteratura e del cinema di fantascienza, fino all’esperienza sociale quotidiana dei nostri tempi, nei quali le macchine della comunicazione ricoprono il ruolo di veri e propri miti in senso barthesiano. Basti pensare molto semplicemente al rapporto che ciascuno di noi intrattiene col proprio telefonino o con il proprio personal computer.
Il mito non è però qualificabile come vero o falso tout court: esso anzi nasconde sempre un pizzico di verità. La “verità” nell’inversione sopra descritta consiste nel fatto che in effetti c’è in un certo senso “natura” nella macchina: tale “natura” sociale è il linguaggio come congegno che modellizza il funzionamento di ogni macchina, che è macchina in quanto tale. Il lavoro di tale “macchina” linguistica vive nella macchina – e a maggior ragione nella macchina a base digitale e informatica – come “lavoro astratto” (in termini marxiani) incorporato nel sapere sociale che la macchina stessa vivifica e di cui essa necessita in modo sempre più ampio, in quanto essa è proprio, come si è detto, tale sapere sociale. Sta evidentemente ai rapporti umani, all’etica, alla politica, intese nel senso più ampio e nobile, stabilire se questo “lavoro astratto” debba stagnare come “lavoro morto” nell’ottica dell’alienazione segnica o possa invece potenziarsi secondo progettazioni sociali in armonia con la vita.
Nel suo libro Critica della ragione informatica (1997), Maldonado ricorda come sia in atto oggi “un cambiamento radicale nelle modalità di attuazione del disegno coercitivo del potere” (p. 90). Mentre nel passato tale disegno faceva ricorso all’indigenza informativa, oggi, ci dice Maldonado, “è l’opulenza informativa che viene privilegiata” (p. 91). Le macchine comunicative potenziano enormemente tale opulenza informativa, proprio per il tipo di “natura” metasemiotica che esse contengono. Solo che, come sottolinea Maldonado, accade che di fronte ad essa “il cittadino è destinato a reagire, prima o poi, con un crescente disinteresse” (ib.). L’eccesso di informazione si trasforma in una sorta di entropia semiotica (l’espressione è di Lotman 1993) in cui si manifesta a pieno l’alienazione segnica.
E qui io credo si dimostri come il racconto di Clarke citato all’inizio, malgrado il suo fascino e la sua tenuta narrativa, lasci il tempo che trova. Un Dio che abbia come fine la propria nominazione, infatti, non è un dio rispettabile: non credo francamente che una religione profonda e meditativa come il buddismo possa contemplare qualcosa di simile. Ma neanche un calcolatore che abbia fini nominalistici mi pare una macchina “rispettabile”, e qui ci aiuta la parentela macchina/linguaggio: linguaggio, infatti, non è nomenclatura - questo ce lo insegnano le scienze del linguaggio almeno dal Cratilo in poi - e men che meno abbiamo bisogno di macchine che ci aiutino ad elencare nomi: questo già lo fanno bene al giorno d’oggi le strategie in doppio petto blu del marketing e della pubblicità spacciate per “scienze della comunicazione”.
C’è un passaggio di uno scritto di Rossi-Landi a cui sono particolarmente debitrice e che mi sembra esprimere con un esempio unico le potenzialità implicite nel linguaggio come macchina e nella macchina come linguaggio. E’ il passaggio del suo lungo saggio sulle Ideologie della relatività linguistica, in cui parla di quella fase infantile in cui il piccolo essere umano tenta

di impadronirsi della macchina della lingua come soddisfattrice di bisogni: di mettersi nelle condizioni di produrne ogni volta ex novo le articolazioni in consonanza con la sua esperienza del mondo e del prossimo, di essere se stesso come parlante. Così egli gioca con le parole, le manomette e rimescola in varie direzioni; di ogni cosa chiede il perché; e si rende ben conto dell’interno significato umano delle parole che ha appreso (Rossi-Landi 1972, p. 172).
E’ una fase, continua Rossi-Landi, che può durare anche solo poche settimane: è una fase di passaggio, che viene “risolta” con l’inserimento del piccolo parlante nel sistema della riproduzione linguistica complessiva, attraverso risposte da parte degli adulti che dicono:

“Si dice così”; “è così perché è così”; questo non si dice; la tal cosa è la tal altra; e così via (ib.).

Ecco, io credo che quella fase infantile, prima dell’ingresso nell’ordine del discorso, possa essere assunta a metafora di una condizione di disalienazione linguistica e segnica, di progettazioni sociali in divenire di cui tutti noi necessitiamo soprattutto oggi, e su cui, qui sì, possiamo chiedere aiuto alla “macchine”. Non perché il mondo finisca (questo ahimè sta già minacciosamente succedendo), ma al contrario, perché la vita, i segni, abbiano dimora.

Riferimenti bibliografici

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2003    (a cura) Discipline della moda, Napoli, Liguori.

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