di Patrizia Calefato
(La Gazzetta del Mezzogiorno del 25/9/2011)
Spread, rating, outlook, default: sono solo alcune delle parole più temibili che in queste settimane rimbalzano dalle istituzioni finanziarie e politiche ai mezzi di informazione, e via via discendono nei discorsi al bar, negli interrogativi quotidiani e negli incubi notturni dei cittadini alle prese con un mostro che si chiama non solo “crisi economica”, ma anche, per dirla con Italo Calvino, “peste del linguaggio”. Così, infatti, il grande scrittore italiano definiva quell’epidemia che già quando ne scriveva, alla metà degli anni ’80, aveva colpito l’umanità nella facoltà che più la rende “umana”, cioè l’uso della parola. Una peste che si manifesta, scrive Calvino, “come perdita di forza conoscitiva e di immediatezza, come automatismo che tende a livellare l’espressione sulle formule più generiche, anonime, astratte, a diluire i significati, a smussare le punte espressive, a spegnere ogni scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze” (Lezioni americane).
Non sono le parole in sé ad essere pestifere, sia ben chiaro, né lo è l’uso di termini specialistici economici e finanziari della lingua inglese diventata ormai la lingua franca della comunicazione, e dunque a maggior ragione della finanziarizzazione globale. Per le parole, certo, basterebbe un buon dizionario per scoprire, come ci stanno insegnando, che “spread”, o sarebbe meglio dire “spreading”, vuol dire differenziale di rendimento a partire da un valore medio di misurazione; che “rating” vuol dire “valutazione”; che “outlook” in questo caso non è un programma di posta elettronica, ma è il giudizio di stabilità o meno che emerge da questa valutazione; che “default” non è solo la condizione operativa che un programma informatico seleziona automaticamente in mancanza di istruzioni specifiche, ma in economia è una condizione di insolvenza, di bancarotta.
Potremmo dire tutto questo in italiano? Forse sì, almeno la nostra lingua smetterebbe di funzionare come il “latinorum” dei potenti che intimidiva Renzo nei Promessi sposi. Ma c’è qualcosa di più profondo, che va oltre l’uso o meno dell’inglese o di altri stranierismi, ed è il modo in cui oggi il linguaggio della comunicazione perde sempre più la sua consistenza, il suo nocciolo duro. Questo dovrebbe accendere continue “scintille”, proprio come dice Calvino, per portare le persone a interrogarsi sempre su cosa stiano facendo quando parlano, leggono, scrivono, su dove trovi la sua base e la sua esperienza quel modo – nuovo o vecchio che sia – di definire le cose. E invece ci mettiamo sulla bocca in maniera meccanica parole che ci sembrano circolare “naturalmente” da sempre nel mondo, mentre sono in realtà parole che corrispondono a precisi meccanismi storici e sociali di cui spesso dimentichiamo gli attori e i motori. Parole che segnano, in un paio di sillabe, il destino di nazioni e popoli senza che ci si possa fare nulla, senza che nemmeno sia possibile resistere, magari andando in cerca di altre parole, più vere, più esatte, più in salute.
Sono proprio le parole correnti dell’economia, della finanza, dei “mercati”, a ricalcare nella loro perentorietà e insieme nella loro astrazione la dimensione ugualmente astratta del capitalismo odierno, in cui ad essere in circolazione sono debiti e crediti, rapporti legati a titoli, azioni, obbligazioni, stime di crescita e “pagherò” di dimensioni gigantesche. Il linguaggio rispecchia questa dimensione sans phrasedel mercato, cioè il suo essere “senza ulteriori parole e determinazioni, senza qualificazioni”. L’espressione dell’antico francese “sans phrase” fu usata da Karl Marx nell’Ottocento per definire il lavoro indifferente e fortuito, sganciato da qualunque determinazione, astratto, generale, che è condizione dell’economia capitalistica. Oggi ad essere “sans phrase” non è solo il lavoro, quando c’è, ma è proprio il modo di produzione in cui viviamo. E non a caso questa espressione francese significa che è la parola, la frase, a mancare: sans phrase, senza parole non si può definire concretamente l’oggetto, il campo, il concetto, cui il nostro modo di produzione fa riferimento. Ci mancano dunque le parole prima ancora che le risorse per andare avanti?
In mancanza di parole vere, ci trinceriamo dietro formule che non comprendiamo, magari anche dietro un inglese imbastardito che tradisce la ricchezza di quella lingua in una piatta omologazione, usando però il quale ci sembra di essere così al passo con i tempi, così cool!
Negli anni ’60, lo stesso Italo Calvino difendeva lo sviluppo “tecnologico” delle lingue, ritenendolo fondamentale sia nel processo di unificazione linguistica nazionale, in particolare italiana, sia nel contesto dell’internazionalizzazione allora crescente della società – ancora non si parlava di globalizzazione. Ma la precisione e la concretezza che Calvino allora richiamava come ideale linguistico doveva fare i conti, come egli stesso scriveva, con la tendenza degli italiani a usare espressioni astratte e generiche, soprattutto nel linguaggio politico, e con l’”antilingua” burocratica delle carte bollate. Oggi in Italia carte bollate ne esistono di meno rispetto a 50 anni fa, il linguaggio politico decade in mugugni, dita medie e gesti dell’ombrello, ed è ahimè proprio la lingua “tecnologica” ad esser diventata il deposito di astrazioni, genericità, alienazione.
Le parole sono pietre, dice un detto celebre, ma più che pietre sarebbe bello che fossero mattoni, in grado di costruire e non di sfumare, di dare senso e non di farci perdere i sensi.