(pubblicato su la Gazzetta del Mezzogiorno del 16/10/2011)
Giulietta è stata per una breve stagione “la bellezza, la
potenza e la tecnologia”, aveva il corpo sinuoso e atletico di Uma Thurman, era
fatta “della stessa materia di cui son fatti i sogni” su citazione da
Shakespeare (La tempesta) e dal Falcone maltese (Humphrey Bogart). E faceva un bell’effetto.
Purtroppo nelle ultime settimane anche Giulietta si è arresa: elargisce così quotidianamente
dalle TV, dai giornali e dal web inviti inequivocabili come: “Guardami,
toccami, accarezzami, sussurrami, prendimi, scuotimi, incitami, proteggimi”,
via via fino all’impertinente, ma passivamente rassegnato “Provami”.
Anche Musa fino a tre anni fa aveva un che di incendiario
dentro, anzi la sua interprete Carla Bruni era una vera pétroleuse che con un sol gesto dava fuoco a una tronfia limousine,
proprio come avrebbe fatto una comunarda parigina del 1871 contro i simboli del
potere e della disparità sociale. Certo, poi Musa commise un crimine simbolico
violando l’immagine di culto intramontabile di Audrey Hepburn davanti a Tiffany.
Le fece schiacciare, come in una macumba, il sacchetto dei croissant e quella
stessa limousine incautamente di passaggio sulla Fifth Avenue, cosa che mai
avrebbe fatto la delicata Holly Golightly. Nessuno poteva però immaginare la
discesa di Musa verso successive cadute di stile: dapprima, un aitante
giovanotto-autista che strappa l’elegantissimo quanto eccessivo strascico rosso
di una bellona appena uscita dalla “limo”, per accogliere invece come Musa tra
tutte nientemeno che Elisabetta Canalis in abbigliamento casual. Povera Doris
Day, resa complice solo perché canta “Perhaps” in sottofondo! Poi, l’ultima
mutazione, e Musa non avrebbe dovuto accettarla proprio visto che le hanno dato
da rimasticare il trito e abusato abbinamento tra la donna e il serpente,
simboli di tentazione e di lusso, sia pure nella consapevolezza che “il vero
stile non ama gli eccessi”.
Donne e motori: di nuovo insieme come in una canzone di
Bruno Lauzi, come in un proverbio ammuffito che li abbina a “gioie e dolori”,
come in una scopiazzatura sciocca del calendario Pirelli, come in un manifesto
da camionisti (con tutto il rispetto per la categoria), come nei saloni
dell’auto dove sui tettucci delle sportive si accomodano languide modelle in
abito da sera. Come non se ne può più.
Possibile che se un pubblicitario pensa a un’auto debba per
forza paragonarla a una donna, facendolo peraltro nel modo più stereotipato?
Possibile poi che questo genere di paragoni abbiano nelle pubblicità italiane
una decisa prevalenza? Perché oggi è soprattutto in Italia che le case
automobilistiche privilegiano i contenuti sessuali e l’immagine femminile come
attrattrice dei maschi guidatori, mentre, ad esempio, il colosso tedesco
dell’auto punta nei suoi spot sull’ironia e la leggerezza. Narra, così,
genialmente la giornata di un bambino che gioca a fare il cattivo di Guerre stellari Dart Fener con la
macchina del papà. Più di recente, traduce il vecchio e fortunato “pensa in
piccolo” (Think Small) nel contemporaneo “pensa in blu” (Think Blue) raccontando
nello spot la storia dell’azienda attraverso uno spartito musicale illustrato e
animato, al suono di una vecchia canzone dei Beach Boys riciclata in cover.
Niente cosce, niente natiche, niente tacchi a spillo o serpenti tentatori.
Il connubio tra donne e motori si riproduce attraverso
simboli ben radicati nell’immaginario sociale e nel linguaggio: per esempio il
termine “carrozzeria”, che indica la parte non meccanica di un’automobile, ma
che è diventato il termine per indicare pesantemente anche le forme femminili.
Oppure pensiamo all’immagine dell’uomo “alla guida”, inteso sia in senso
letterale che metaforico, come pilota della macchina e come leader, come colui
che decide dove l’auto, la donna o le masse debbano andare, con tutte le
pericolose implicazioni di questo modello umano e politico.
Perfino il sofisticato critico dei miti d’oggi Roland
Barthes ci cascò, quando negli anni ’50 prese sul serio il nome di Déesse, Dea,
che la casa produttrice aveva dato giocando sulla pronuncia francese delle
iniziali DS di quell’automobile che fu invece diffusamente conosciuta come
“coccodrillo” o “ferro da stiro”. Certo, Barthes svelava allora i meccanismi
semiotici del mito contemporaneo della divinità al femminile, ma poi rimaneva
egli stesso invischiato in metafore molto prossime al sessismo, quando evocava
la dimensione “casalinga” e “tattile” di quella dea di metallo, oggi pezzo di
culto nel vintage dei motori.
L’immagine del motore potente e della macchina veloce viene
spesso paragonata a quella della donna dominatrice, aggressiva e rapida,
pericolosa come una curva, della strada o dei fianchi, dietro la quale è la
morte ad essere in agguato. Anche questa dark lady è comunque sempre sottoposta
al desiderio e allo sguardo maschile, vive anzi in funzione di questo. Il mondo
della Formula 1, mondo del rischio e dell’eccesso a forte impronta maschile,
reca da sempre con sé una corte di donne che circondano il campione, gli
portano lo champagne da stappare sul podio, costellano come satelliti i suoi
ritratti sulle foto patinate.
C’è poi l’idea dell’ostentazione e del lusso che sia
l’automobile fiammante, sia la bella donna spesso rappresentano per l’uomo “di
successo”, che sembrerebbe coltivare ogni notte il sogno segreto di essere uno
007 sulla sua Aston Martin con al fianco la Bond girl di turno. Ma è proprio
vero che questo sogno sia il massimo per un uomo? Non sembra proprio in realtà,
visto che in giro ci sono uomini che, pur non disdegnando il design o le
prestazioni di una buona auto, magari fanno car-sharing per recarsi al lavoro o
in ogni caso apprezzerebbero metafore e suadenze diverse dai messaggi
pubblicitari, senza con questo sentirsi menomati nella loro “virilità”.
Dietro ogni cofano è comunque sempre in agguato un
sex-symbol femminile da rispolverare quando tutto manchi e le vendite calino all’impazzata. Anche se
sembra, tuttavia, che a calare in pubblicità siano spesso le idee, e di
conseguenza le vendite, perché anche il marketing ha bisogno di cultura, e oggi
più che mai il motore del consumo non risiede nella materia di cui son fatti i
sogni, bensì in quella di cui son fatti i bisogni più autentici dell’essere
umano. Tra questi bisogni, la sostenibilità, intesa da tutti i punti di vista:
da quello ambientale a quello sociale e solidale.
Se c’è una cosa positiva che la crisi, suo malgrado, può
lasciarci, questa è infatti l’idea che l’attenzione alla persona sia qualcosa
di più importante dei simboli di un successo o di una ricchezza “maledetta e
subito”. E attenzione alla persona vuol dire innanzi tutto attenzione alla sua
dignità, compresa la dignità del suo corpo e della sua sessualità. E’ per
questo che dalla dignità delle donne nella sfera privata e pubblica passa oggi
un punto essenziale per riemergere dal baratro globale. Per favore dunque,
svegliamoci domani senza più “bonazze” sul cofano.
Box
Con onestà, c’è da dire che una delle sorelle di Musa, detta
meno poeticamente con una semplice lettera, Y, aveva fatto recentemente
riflettere i consumatori di immagini sull’idea di lusso, basando il suo
Leitmotiv sul fatto che “il lusso è un diritto”. Ma quale lusso? Per
rispondervi i pubblicitari dell’azienda hanno ingaggiato questa volta un
testimonial uomo, l’attore Vincent Cassel, e lo hanno fatto sdoppiare in due
personaggi: uno aggressivo e uno pacato. Il primo enuncia le qualità apparenti
del lusso: feste, gioielli, ville, vivere negli eccessi, puntare al massimo,
avidità, non essere mai soddisfatti. Il secondo dichiara invece la morte
dell’ostentazione e il fatto che il vero lusso stia nelle cose più semplici,
tra le quali ovviamente Y, utilitaria glamour.