lunedì 8 febbraio 2010

Il potere? meglio se ha le orecchie a sventola



(il mio articolo pubblicato sulla Gazzetta del Mezzogiorno del 7/2/2010)


Andreotti concorre alla notte degli Oscar. Non sarà però lui in persona a correre in rappresentanza dell’Italia per la statuetta più celebre del cinema mondiale, ma i truccatori Aldo Signoretti e Vittorio Sodano che nel film di Paolo Sorrentino Il divo hanno trasformato così bene l’attore Toni Servillo da renderlo quasi più vero del vero “divo Giulio”. Per meglio dire, lo hanno reso più vicino alla maschera grottesca dell’uomo che ha tenuto per mezzo secolo in mano il cuore più o meno occulto del potere in Italia: orecchie a sventola, volto cereo, occhiali spessi, capo incassato nelle spalle ingobbite. “Il potere non logora i brutti”, potrebbe essere la parafrasi della più celebre frase che ad Andreotti viene comunemente attribuita. Eppure la stella dei brutti di potere sembrerebbe doversi eclissare oggi, nell’epoca in cui tutti paiono rassegnarsi al fatto che l’apparire esaurisca l’essere in ogni ambito del vivere e particolarmente in politica, in quella politica che, nella sua rappresentazione dominante, è ormai purtroppo nulla più che comunicazione e immagine.

Gli spin-doctor (termine che bisognerebbe realmente bandire dal dizionario), cioè i consiglieri e i curatori d’immagine dei leader politici costruiscono i contenuti e i modi nei quali il “capo” deve presentarsi di fronte al pubblico, sia questo costituito dai consumatori quotidiani di urla televisive, dai navigatori del web o dai lettori di pagine prezzolate di fotoromanzi famigliari sempre edulcorati dal lieto fine e da un sorriso, magari “a 35 denti”. Parliamo dell’Italia berlusconizzata nella “pancia” e nell’estetica, ma parliamo anche di una moda che viene da lontano, dagli Stati Uniti d’America, dove il potere dell’immagine ha una storia ben più lunga che da noi. Valgano come esemplari in questo senso le pagine che John Grisham, nel suo romanzo del 1992 Il rapporto Pelican dal quale Alan J. Pakula diresse l’anno successivo un bel film con Julia Roberts e Denzel Washington, dedicò al cardigan che un immaginario e non del tutto limpido presidente statunitense indossava in televisione allo scopo di simulare tramite l’abito la rassicurante figura del “buon nonno”.

La generazione dei politici italiani del dopoguerra, nati con la Repubblica e la Costituzione, non sembrava invece dar troppo peso all’estetica, o comunque la considerava entro limiti di buon senso. Proprio Andreotti tentava per esempio di occultare dignitosamente la sua cifosi sotto abiti tagliati da sarti personali di gran classe, che fecero la loro fortuna anche fregiandosi di essere stati i suoi preferiti. Aldo Moro portava quasi come un segno di distinzione la sua ciocca di capelli bianchi comparsa in età giovanile. E sinceramente, in quella generazione, ciò che contava era soprattutto la “faccia” del politico, nel senso pieno del termine: si pensi a Sandro Pertini, uno degli uomini politici italiani più belli del Novecento, che tale è rimasto fuori e dentro anche quando era ultranovantenne. Oggi invece, secondo le prescrizioni della video-crazia, ogni segno di vecchiaia dovrebbe venir cancellato da una tintura, da un lifting, da un “ritocchino”.

Sono ben note ai pugliesi le perplessità che Berlusconi avrebbe avuto sulla candidatura di Rocco Palese alla presidenza della Regione per il PdL a causa della sua non avvenenza, o sul sindaco di Assisi Claudio Ricci, cui le orecchie a sventola hanno impedito di correre come possibile governatore dell’Umbria. Certo non sarà stato questo l’unico motivo per la bocciatura di Ricci; e certo in difesa di Palese è sceso perfino il suo barbiere salentino; tuttavia ciò non cancella il fatto che il corpo della politica sia oggi quasi completamente invaso dalla dimensione dello spettacolo, con le sue maschere di cerone, i suoi horror chirurgici, le sue protesi spettrali.

Abbiamo finora parlato volutamente di uomini in politica, e non di donne: un po’ perché purtroppo queste costituiscono in Italia ancora una esigua minoranza, un po’ perché anche l’attuale voga di cooptare al potere e candidare le “belle” miss e veline, pur essendo uno dei necessari corollari del rapporto tra il salone dell’estetista e la politica, non è che una proiezione delle frustrazioni maschili. La funzione “decorativa” che spesso viene oggi assegnata in Italia alla donna in politica serve cioè a compensare e sostituire quanto l’uomo non riesce a raggiungere, quanto il suo corpo vorrebbe ma non può. Dunque, ancora più inquietante risulta l’estetismo in politica in quanto copre vuoti paurosi, maschera l’autoreferenzialità del potere, riduce la comunicazione a propaganda: la prima è certo necessaria, ma la seconda è solo morte per la politica intesa come vita attiva dei cittadini.

Il potere si è servito spesso nella storia di “macchine” meravigliose per rappresentarsi: dalle feste pubbliche delle corti italiane cinquecentesche, alle rappresentazioni dell’effimero barocco, ai lussi di Versailles. Nella prima metà del Novecento, l’estetizzazione della politica si è però concentrata particolarmente sul corpo: i “bei corpi ariani” su cui indugiavano ad esempio i film di Leni Riefenstahl furono il fondamento del totalitarismo hitleriano, la base estetica – se così si può dire – dell’Olocausto. Il “corpo maschio” di Mussolini che trebbiava il grano simboleggiò l’impostura attraverso cui il fascismo fece accettare agli italiani le leggi razziali e l’entrata in guerra come “ora segnata dal destino”.

Nel Ventunesimo secolo torna il totalitarismo estetizzante dei corpi, in forme diverse dal passato, ma ugualmente pericolose. Compito della buona politica è contrastarlo, non scimmiottarlo. Ne va della vera bellezza, della vera estetica, che pongono nella dignità e nella capacità comune di giudizio il loro fondamento.

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