lunedì 6 ottobre 2008

Un articolo di 7 mesi fa


Pubblicato l'8/3/2008 su La Gazzetta del Mezzogiorno

Posto questo articolo adesso proponendolo come contributo al "Vogliamo anche le rose" di cui parlerà agli studenti e al pubblico baresi Alina Marazzi il prossimo 15 ottobre. L'articolo mi sembra quanto mai attuale, pur nella sua "inattualità" da calendario: un po' come farsi gli auguri di Natale in agosto, insomma. Solo che ciò di cui qui si parla non sono precisamente "auguri", non c'è nessuna ricorrenza da celebrare, al contrario. 


A partire dai primi anni del 2000, sull’8 marzo era sceso in Italia un pietoso silenzio. Innanzi tutto da parte delle donne, stanche di prenotare tavoli in pizzerie sovraffollate; stanche di ricevere mimose che appassiscono in poche ore nei vasi domestici; stanche di festeggiare in chiassose comitive monogenere una ricorrenza di cui nessuno ricordava più l’origine; stanche della ennesima data sul calendario divenuta, dagli anni Ottanta in poi, occasione di consumo e cioccolatini, al pari di San Valentino, Halloween, la Festa della Mamma e quella del Papà.

Se guardiamo alla storia dell’ultimo mezzo secolo in Italia, è stato soltanto in un decennio – quello dei Settanta – che questo giorno ha avuto effettivamente modo di essere, come si diceva all’epoca, “non un anniversario / ma un giorno di lotta rivoluzionario”. Di rivoluzione effettivamente si trattava, dal momento che le vere rivoluzioni sono quelle che sconvolgono la vita reale delle persone e mutano le abitudini più radicate creando nuova cultura, nuovi valori, nuovo senso comune. Intorno a quegli anni mutò radicalmente nel nostro paese l’universo intero delle relazioni tra uomini e donne. Cambiavano le donne a partire dalla loro quotidianità e dalle loro esperienze, e cambiavano insieme gli uomini, certo con grandi sforzi e resistenze.

Pensiamo che solo fino al decennio precedente, l’Italia era stato il paese dove il delitto “d’onore” riceveva pene ridotte; dove l’adulterio della donna era punito con la reclusione; dove il divorzio conosceva solamente la sua ipocrita versione “all’italiana”, come nel celebre film di Germi del 1961; dove la violenza sessuale era considerato un delitto contro la morale e non contro la persona. Dove i figli nati al di fuori del matrimonio erano figli “illegittimi” e dove la donna che volesse portare avanti una maternità da sola era sanzionata pesantemente dalla comunità. L’Italia era il paese dove le donne morivano quotidianamente e dolorosamente per l’aborto clandestino.

Furono dunque le donne in prima persona a cambiare la doppia morale dominante nella nostra cultura e a scalfire pian piano, ma con grande decisione, una concezione che prevedeva solo ruoli prefissati e destini segnati: madre o prostituta, mai soggetto libero di scegliere; figlia, sorella o moglie, mai cittadina autonoma. Così ciascun 8 marzo, del 1972, del ’73, del ’74, via via fino alla fine del decennio, fu veramente l’occasione per ritrovare nelle piazze e nei luoghi di pacifico raduno e discussione migliaia di donne che prendevano la parola su ciò che riguardava direttamente la loro vita, i loro corpi, la loro sessualità, la loro indipendenza di pensiero. La società italiana tutta cambiò: la legge sul divorzio (1970), il nuovo diritto di famiglia (1975), la 194 per “la tutela della maternità e l’interruzione volontaria della gravidanza” (1978), le leggi a tutela delle lavoratrici madri (1971) ne furono il segno tangibile e l’effetto stabile. Le nuove norme contro la violenza sessuale arrivarono solo nel 1997, oltre vent’anni dopo il tremendo “massacro del Circeo” (1975) che aveva simbolizzato nell’orrore il delitto maschilista più efferato. Ma sono arrivate anche quelle.

Nel frattempo, gli 8 marzo erano diventati però sempre più occasioni di consumo, trasformandosi spesso anche in goliardate poco edificanti che negli anni ’90 fecero la fortuna dei gruppi di strip-tease maschile. Forse la fatica di arrivare alle conquiste civili era stata tanta e le donne adesso volevano un po’ riposare e tessere una tela di libertà e diritti meno appariscente, ma in realtà molto più radicata nei luoghi dove ogni giorno si trasmettono culture e linguaggi, come nella scuola; dove esistono relazioni, come in ogni casa e in ogni luogo di lavoro; dove si esercita la cura, dove si accoglie chi arriva da lontano. Forse le nuove generazioni di donne che nascevano davano per scontate libertà e civiltà, portando nel loro DNA le conquiste di madri e nonne.

Mai però assopirsi! Mai dare nulla per scontato! Perché il tempo è “grande scultore”, come diceva Marguerite Yourcenar, ma nel tempo la memoria rischia di perdersi, e ciò che alle donne è toccato in Italia negli ultimi 20 anni è stata una lenta ma pervicace erosione della dignità pubblica e dell’autonomia. Basti qualche esempio: come è stato possibile che la minigonna, da indumento che ha significato l’emancipazione e la libertà femminile di muovere le gambe ovunque una donna vuole, sia diventato un banale simbolo di seduzione da usarsi quando si vuole “fare colpo”? Come si è riusciti nel giro di qualche anno in Italia a rendere “vincenti” figure della femminilità e della bellezza sagomate sul genere velina, accompagnatrice, amante di politico importante, fidanzata di calciatore, frequentarice del Billionaire, moglie-modella di presidente della repubblica francese?

Qualcuna ha alzato la voce contro questo nuovo presunto “destino”, ed ecco che negli ultimi tempi è subito apparso, in una nuova direzione, un accorato ma subdolo appello a quanto in ogni donna, di qualunque età e origine, vive nell’animo ben radicato: il senso di colpa. Una carriera? un aborto? un abbandono? Rea sempre confessa la donna: è sua la colpa. Brutta storia, come dimostra proprio il caso dell’aborto: tutti sono d’accordo nel dire che la 194 sia una buona legge, ma – per riprendere l’ironico refrain di Paola Cortellesi, “riparliamone!”. Potremmo riparlarne, ma solo per rammentare con le più anziane e raccontare alle più giovani la “fatica” politica, simbolica e fisica attraverso cui ci si arrivò, i dolori che quella legge lenì e continua a lenire, le discussioni e gli insegnamenti che in quel percorso incontrammo, i progressi nella salute e nella prevenzione che intorno a quella legge sono stati fatti.

Ci tocca di nuovo far qualcosa l’8 marzo. Ci tocca non lasciare agli integralismi di ogni tipo  questioni che riguardano valori come la responsabilità e la libertà. Il rischio è che la responsabilità venga intesa di nuovo come necessità di venire tutelate da qualcuno, e che la libertà venga scambiata per superficiale individualismo. “Non sono forse libere le varie soubrette e celebrities fotografate dai paparazzi o esibite in televisione?”, può dire una vocina sorda dietro l’angolo. Ma non è certo quello il modello di autentica libertà che le donne hanno messo secoli a conquistare e che per molte donne nel mondo è ancora lontana.

Dunque, l’8 marzo, ancora.

 


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